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Verso una nuova umanità

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23 Luglio 2021
Verso una nuova umanità

Quasi umani, dal golem a Pistorius


L’ibridazione che caratterizza il corpo di Oscar Pistorius, escluso dalle Olimpiadi di Pechino poiché dotato di protesi in fibra di carbonio dalle ginocchia in giù che gli consentono prestazioni atletiche superiori ai normodotati, ci impone una riflessione profonda sul rapporto tra la tecnologia e il nostro essere “solo” uomini. Una riflessione che non riguarda esclusivamente gli aspetti eminentemente tecnici, ma destinato a rivolgersi ad ambiti in cui a prevalere è l’etica e le sue implicazioni nella scienza; inoltre, in questa riflessione rientra anche l’antropologia spicciola, quella con la quale tutti noi facciamo quotidianamente i conti.

Da tempi lontanissimi l’uomo ha provato a “creare” qualcosa che gli somigliasse. Ma a questo “qualcosa” ha cercato di assegnare caratteristiche che consentissero, al prodotto della sua neo-creazione, di essere uomo; però, strutturandolo secondo principi omocentrici e che quindi lo rendessero anche un po’ macchina, di conseguenza controllabile dal suo creatore. Per giungere a tanto, l’uomo ha tentato la scalata dell’Olimpo, al fine di sentirsi vicino alla divinità, ma anche nella condizione quindi di strappare agli dèi il potere di dare la vita e di “migliorare”, secondo un progetto meramente antropocentrico, quanto la natura ha riservato alla nostra specie.

Osservando globalmente quanto le molteplici fonti ci propongono sull’atavico desiderio umano di intervenire sulle leggi della natura, al fine di modificarne i processi e i “limiti”, fino a immaginare di creare la vita, possiamo isolare tre fasi:l’uomo crea figure inanimate che, per motivazioni diverse, acquistano vita propria; l’uomo cerca di creare forme di vita; l’uomo modifica l’uomo praticando ibridazioni tra organico e inorganico.

Dobbiamo però considerare che, dal punto di vista etico, le tre fasi indicate sono state sempre considerate infrazioni alle regole della natura e delle leggi divine, quindi ne consegue:consapevolezza che gli interventi umani sui processi naturali, fino alla creazione della vita, alterano un equilibrio naturale; alterità dell’essere modificato/creato; rischio da parte dell’uomo di perdere il controllo dell’essere creato che diventa dominatore.

Tentando adesso una schematizzazione cronologica possiamo indicare il seguente processo: inizialmente, come raccontano i miti, l’uomo tenta di dare la vita alla materia inerte, in seguito si hanno le scoperte legate a biologia e medicina e quelle legate ai principi che regolano l’evoluzione. Grazie alla tecnica è stato possibile costruire automi e robot. Da questa combinazione di fattori si sviluppa la possibilità scientifica e fantascientifica di creare ibridi/cyber.

Il processo suindicato tiene naturalmente conto delle implicazioni etiche, che sono state considerate imprescindibili, sia dalla scienza che dalla mitologia; il rifiuto a osservare queste implicazioni avrebbe (e ha) condotto l’uomo a operare mosso dalla cosiddetta “arroganza prometeica”. Tutto ciò non è stato indolore e soprattutto presenta tutta una serie di risvolti sul piano antropologico, psicologico e forse fisiologico. Su questi risvolti molti uomini di scienza si sono interrogati a partire dai tempi in cui i cosiddetti robot hanno iniziato la loro lenta ma inarrestabile ascesa; naturalmente le questioni si sono profondamente problematizzate quando è entrata in scena la famosa pecora Dolly; l’attenzione si è così spostata sull’ingegneria genetica e poi sui temi dell’ibridazione uomo-macchina.

La consapevolezza dell’uomo di essere nella condizione di intervenire a trecentosessanta gradi sulle dinamiche che governano i cicli naturali delle specie, ha sempre fatto riflettere chi ha guardato all’homo come a una creatura comunque imperfetta, spesso incapace di definire completamente i propri limiti. Il noto psicoanalista Erich Fromm (1900-1980) nel suo ormai classico libro Avere o essere? scriveva:

Verso una nuova umanità

“La nostra civiltà ha avuto esordio quando la specie umana ha cominciato a esercitare attivamente il controllo sulla natura; ma tale controllo è rimasto limitato fino all’avvento definitivo dell’era industriale. Grazie al progresso industriale, cioè al processo che ha portato alla sostituzione dell’energia animale e umana con l’energia dapprima meccanica e quindi nucleare e alla sostituzione della mente umana con il calcolatore elettronico, abbiamo potuto credere di essere sulla strada che porta a una produzione illimitata e quindi illimitati consumi; che la tecnica ci avesse resi onnipotenti e la scienza onniscienti; che fossimo insomma sul punto di diventare dei, superuomini capaci di creare un mondo secondo, servendoci del mondo naturale soltanto come di una serie di elementi di costruzione per edificarne uno nuovo”.

Il “superuomo”, che crediamo di essere, si implementa giorno dopo giorno attraverso l’acquisizione di nuove conoscenze, ma, come avvertì Albert Schweitzer (1875-1965), quando nel 1952 ritirò il Premio Nobel per la Pace, bisogna fare attenzione, poiché “le nostre coscienze non possono non essere scosse dalla constatazione che, più cresciamo e diventiamo superuomini, e più siamo disumani”.

Il desiderio dell’uomo di creare un proprio simile, o di sostituirne alcune parti, ricostruirlo, modificarlo, come una qualunque macchina, parte da molto lontano. Questa ambiziosa speranza è un leitmotiv così forte da essere rintracciabile in ogni tempo e in molte culture, alcune insospettabili. Riuscire a dare forma a un essere fatto di carne e sangue, ma anche di parti copiate dalla natura, o “migliorate”, la cui anima sia soggetta al dominio di chi si è eletto insufflatore di vita, esprime soprattutto il bisogno dell’uomo di dimostrare, al di là del mito, della religione, della magia e forse anche della scienza, la sua capacità di controllare la natura.

Un esempio indicativo proviene dalle ricerche finalizzate a definire un sistema che consenta di giungere alla creazione di un “figlio su misura” … Oggi non è più un pourparler intorno alle notizie relative all’ingegneria genetica che i mass media diffondono con sempre maggiore frequenza, che spesso però non comprendiamo bene nella loro effettiva valenza, ma un fatto reale. Il mito dell’eugenetica è diventato realtà sotto forma di brevetto, a detenere il primato un’azienda della California, specializzata nella produzione di test genetici e che ha elaborato un algoritmo per trasformare i risultati di un questionario sottoposto ai futuri genitori in un sistema che seleziona, attraverso una batteria di calcoli probabilistici, quale combinazione fra gli ovuli e gli spermatozoi, disponibili in una banca di gameti, consente di avvicinarsi al “figlio ideale” desiderato dai richiedenti.

Anche se sappiamo che l’imperfezione fa parte della vita (sono circa ottomila le patologie rare di cui l’origine non è chiara), è evidente che inseguire il sogno del “bambino perfetto” attraverso un algoritmo, costituisce una deriva etica preoccupante.

Si aggiunga che, pur con la consapevolezza dell’effettiva disposizione ogni individuo ad alcune patologie, come il diabete, malattie cardiovascolari, obesità, svolgono un ruolo determinate l’ambiente e lo stile di vita, che possono influire, nel male, ma anche nel bene.

Va considerato, dal nostro modesto punto di vista, che l’atteggiamento definito “arroganza prometeica” in effetti può essere espressione della grande angoscia che scaturisce dalla solitudine della specie homo; questa consapevolezza determina istanze diverse e che sono espressione della cultura in cui l’uomo si muove, con i mezzi di cui dispone, per cercare di dare un senso, più filosofico che antropologico, alla creazione della vita. Nel 1991, “Scientific American” ha scritto che la formazione casuale di un batterio ha la stessa probabilità dell’assemblaggio di un transatlantico provocato da un tornado che soffia su un deposito di rottami… Malgrado ciò, l’uomo ha continuato, tra scienza e fantascienza, nella sua corsa alla creazione.

A dare la vita alla materia inerte ci provarono Prometeo e Pigmalione, suscitando l’ira degli dèi; poi venne Filippo Bombast di Hohenheim, in arte Paracelso (1493-1541), il filosofo-medico svizzero che tra le sue tante idee innovative ipotizzò la creazione dell’homunculus. Per la realizzazione della creatura, Paracelso proponeva di lasciare a “putrificare” del seme maschile in un ventre equino e quindi seguirne la maturazione con tutte le cure del caso. Fino a quando “ne nascerà un vero e vivo fanciullo umano provvisto di tutte le membra come un qualsiasi neonato generato da donna”.

L’essere creato moderno trova la propria apoteosi nel Frankenstein or the ModernPrometheus (1818), di Mary Wollstonecraft Shelley (1797-1851): un romanzo triste, che trasuda angoscia, ma ricco di occasioni di riflessione sul rapporto dell’uomo con la scienza. Una scienza che la Shelley conosceva: in particolare l’elettromagnetismo, che allora era considerato il mezzo più moderno e innovativo per molti settori della tecnica. L’impulso prometeico si amalgama così alle conoscenze scientifiche, ma esprimendosi comunque ancora con i toni del mito, come dimostra chiaramente lo sviluppo del romanzo, in cui la creatura si ribellerà al suo creatore, chiedendo per sé autonomia e libero arbitrio.

“Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato” … Così il dottor Victor Frankenstein esterna la sua delusione davanti alla creatura “nata” da un lavoro che l’aveva indotto a far proprio il diritto divino di creare la vita.

Attraverso lo stordimento prodotto dal presagio che trasforma l’alchimia in chimica e il linguaggio esoterico in fisiologia, lo scienziato aveva provato a sostituirsi a Dio, cercando nel sottoscala della ragione risposte che sembra non ci siano in nessun luogo frequentato dagli uomini.

Leggendo i giornali, o provando ad ampliare le nostre conoscenze attraverso gli articoli proposti sulle riviste scientifiche, apprendiamo che Prometeo, ma anche il dottor Frankenstein, sono molto vicini a noi: nanotecnologie, robot molecolari, organi di ricambio, ibridazioni immaginate fino a ieri solo dalla fantascienza, pongono in rilievo che nel XXI secolo il progresso scientifico raggiungerà risultati ancora difficili da immaginare. Se solo ci appoggiamo lievemente alla Legge di Moore (secondo la quale ogni 18 mesi il potere di calcolo dei computer raddoppia), scopriamo che nel giro di trent’anni ci saranno computer oltre un milione di volte più potenti di quelli di oggi. Inoltre i robot attivi nel Pianeta saranno milioni, sempre più presenti: dalla micro quotidianità alla operazioni più complicate e di responsabilità. Come cambierà il mondo? Difficile dirlo, perché abbiamo un po’ di paura nell’immaginarlo e nello stesso tempo sappiamo che la scienza corre così veloce da rendere spesso vana ogni previsione.

Il libro “Quasi umani” di Massimo Centini, edizioni Xenia, da cui è stato tratto questo articolo
Il libro “Quasi umani” di Massimo Centini, edizioni Xenia, da cui è stato tratto questo articolo

C’è chi sostiene che, intorno alla metà del XXI secolo, l’intelligenza artificiale supererà quella umana: a quel punto quanto abbiamo visto in 2001 Odissea nello spazio o in Blade runner sarà traghettato dalla fantascienza alla realtà collettiva.

Chi vivrà quel tempo dovrà constatare che l’homo artificialis sarà parte integrante della propria quotidianità e dovrà via via elaborare nuovi parametri antropologici attraverso i quali mettere a fuoco le prerogative dell’alterità.

Ci sono voluti miliardi di anni perché si formasse il nostro pianeta; poi sono stati necessari altri due miliardi di anni per dare inizio alla vita e quasi lo stesso periodo di tempo per dare alle molecole l’opportunità di organizzarsi nei primi vegetali e animali pluricellulari. Il ritmo evolutivo ha iniziato ad accelerare circa 65 milioni di anni fa, quando i mammiferi sono diventati i padroni della Terra. Con la comparsa dei primati, il ritmo è ancora cresciuto, fino all’Homo sapiens. Da questo punto osserviamo che, accanto all’evoluzione biologica, si afferma e cresce anche quella tecnologica. All’inizio ci sono volute alcune decine di migliaia di anni perché i nostri antenati fossero in grado di costruire i primi strumenti di pietra scheggiandone i lati. Poi, nel medioevo il periodo necessario per effettuare un passo significativo sul piano tecnologico si è attestato intorno a un secolo. Dall’Ottocento il ritmo di crescita è aumentato e ha condotto a un progresso tecnologico pari a quello dei due secoli precedenti. Nei primi due decenni del XX secolo il ritmo di crescita è stato uguale a quello di tutto il secolo precedente. Oggi sono sufficienti pochi anni per compiere importanti trasformazioni tecnologiche. Abbiamo quindi effettuato passi da gigante che ci hanno permesso di prendere in considerazione la fattibilità di progetti sul modello Frankenstein, accentuando, con l’ausilio delle biotecnologie, il nostro delirio di onnipotenza. Contemporaneamente abbiamo creato macchine “pensanti” sempre più sofisticate e complesse, al punto che oggi siamo certi che in futuro prossimo le macchine saranno capaci di performance superiori di quelle dei loro creatori. C’è chi sostiene che alle capacità fisiche e cognitive superiori delle macchine si aggiungerà la possibilità di provare sentimenti, infrangendo così l’ultimo baluardo che potrebbe garantire all’uomo la sua superiorità, o almeno la sua umanità.

Se volessimo affidarci solo alla fantascienza, oggi potremmo anche pensare che, forse, noi siamo gli organi riproduttivi della tecnologia, fino a quando questa non diventerà autonoma e non avrà più bisogno di noi!

Naturalmente l’interazione della macchina con il mondo esterno è meno facile da attuare di quanto spesso si sente prospettare dai mass media, mentre è indubbio che le tecniche cyborg e le ibridazioni uomo-computer, risultano più plausibili. Questo genere di intervento profondo sulla natura dell’essere, spesso ci fa dimenticare che esiste comunque un’evoluzione naturale, lentissima, ma inarrestabile che persegue senza interruzione il suo disegno. In tale contesto tecnologico e antropologico, l’uomo pare cerchi il modo di diventare sempre più simile alla macchina, perdendo così di vista tutta una serie di valori e di regole che, come aveva detto Albert Schweitzer, dovrebbero evitare di trasformarci in esseri “disumani”.

Gli scienziati, cercando di tranquillizzare quella parte di opinione pubblica che teme lo sviluppo incontrollato delle ricerche sull’ibridazione, sostengono che i tentativi di riprodurre organi umani non hanno la finalità di sostituire gli esseri umani veri e propri, ma di fornire strumenti utili per il progresso.

La scienza oggi dispone delle conoscenze e dei mezzi per poter parlare seriamente di vita artificiale, sia dal punto di vista genetico che tecnologico. Con sempre maggiore frequenza apprendiamo infatti che, alcuni tra i paesi più avanzati dal punto di vista tecnologico, lavorano da tempo al progetto dell’uomo bionico e in alcuni casi i risultati ottenuti sono sorprendenti. Come Rex, presentato recentemente al British Museum di Londra: un uomo bionico con polmoni, cuore, sangue, milza artificiali, arterie realizzate utilizzando polimeri e pancreas artificiale. Ogni organo è stato realizzato con sistemi avveniristici, complessi e soprattutto molto costosi, in grado di generare impulsi elettrici che replicano i processi umani. Un uomo “finto” da un milione di dollari! Un costo che non è un limite: infatti, basta pensare a quanto costava un computer negli anni Cinquanta.

Ma oggi siamo andati oltre: prendiamo il caso di Roxxxy, la prima donna robot al mondo che può soddisfare i bisogni sessuali degli uomini in cerca di esperienze nuove ed alternative.

Progettata e prodotta negli Usa, Roxxy è alta 1 metro e 70e pesa 27 chili, può essere personalizzata, ed è già in vendita sui mercati internazionali con diversi colori di capelli e di pelle, che pare essere vellutata quasi quanto quella umana.

“Uno dei mercati a cui puntiamo è la sanità, ma ora tentiamo di entrare nell’industria del sesso. – dice Douglas Hines, padre di Roxxxy – Il robot non soddisferà solo i bisogni primari, ma sarà anche di compagnia. Il divario tra ciò che è umano e ciò che è robotico si ridurrà al minimo, questo è un momento molto emozionante”.

Nell’ex-Unione Sovietica un gruppo di scienziati di varie discipline, sostiene il progetto “Russia 2045”: entro quella data, secondo i promotori del progetto, gli uomini saranno immortali. Un traguardo che prevede alcuni step. Entro sette anni copie robotiche di esseri umani saranno diffuse come le automobili e controllati a distanza attraverso l’interazione con il nostro cervello. Nel 2025 la materia grigia umana potrà essere impiantata nei cyborg e dieci anni dopo gli androidi riusciranno a provare i sentimenti umani. Poi, finalmente (!), nel 2045 saranno prodotti avatar olografici, veri e propri replicanti, nella condizione di assorbire interamente personalità e ricordi di un essere umano, consegnandolo alla vita eterna…

Per noi, uomini della strada, il progetto di “Russia 2045” ci pare sorga dalla consapevolezza che la nostra specie è “superata”, pronta per essere inserita in un processo evolutivo ex-novo, nel quale mettere una sorta di “turbo” all’evoluzione, al fine di creare un uomo adatto alle necessità di un’epoca dominata dalla programmazione, dall’efficienza, dalla macchinizzazione del naturale. Insomma, l’epoca in cui l’arroganza prometeica sembrerebbe essere la conditio sine qua non per dare alle prospettive teoriche che armano il progresso l’opportunità di farsi realtà.


Massimo Centini è laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Si è rivolto in più occasioni alla tradizione popolare, dedicandole ricerche e studi pubblicati con numerosi editori italiani (Mondadori, Rusconi, Newton & Compton, San Paolo, Accademia Vis Vitalis, YUME edizioni e altri). Ha insegnato Storia della criminologia al M.U.A. di Bolzano ed è docente di Antropologia culturale presso la Fondazione Università Popolare di Torino.