Viaggi

Note, sapori e cieli d’Irlanda

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12 Aprile 2012

Le Cliffs of Moher

Da ‘Dublino fino al Connemara’, come canta Fiorella Mannoia, per esplorare l’isola smeraldo lungo la sua costa più selvaggia. Tra Achill Island e le vertiginose Cliffs of Moher abbiamo incontrato i suoni e le danze dell’orgoglio celtico, goduto di nuvole e luci in continuo movimento, esplorato i sapori di una tradizione contadina che ogni pinta di Guinness rende inimitabile


Struggente e irresistibile come una delle sue gighe, mutevole come un clima che illude e sorprende quotidianamente, la costa occidentale irlandese è in grado di stimolare i cinque sensi attraverso incantesimi minimalisti e teatrali: l’udito insegue suoni antichissimi continuamente reinventati nelle feste e nei pub; la vista si perde nel drappeggio dove il verde (ogni sfumatura del verde) domina incontrastato; l’olfatto coglie i profumi delle onde, del legno e della pioggia; il gusto si confronta col sapore cremoso di una Guinness spillata sapientemente e senza fretta; il tatto gode nello scivolare delle dita tra le trame della lana. In alto il cielo è ‘un oceano di nuvole e luce’, proprio come nella canzone di Fiorella Mannoia. Una canzone che il nostro itinerario ha seguito geograficamente per approdare nel Connemara e in quello che gli sta intorno: isole, scogliere, villaggi, baie, brughiere, rilievi improvvisi, laghetti e lagune, panni stesi al vento e ritmi vitali da sempre accordati su clima e stagioni.

Questa terra impone una dimensione del viaggio differente: meno ‘orizzontale’ – dove per orizzontale si intendono tappe e mappe, con i giorni scanditi da approdi successivi – e più ‘verticale’, con soste, sovente inattese, dove ci si immerge nello spazio, nel tempo, nel contatto con la gente, lasciando che le ore ci passino addosso mentre il sole sta uscendo da dietro una nuvola, perché un musicista di strada accorda il suo violino, perché, se vuoi raggiungere un qualsiasi luogo, la cartina, le distanze espresse in chilometri o il tuo amato navigatore perdono ogni valore misurabile.


Le Cliffs of Moher

Ci si ferma e si ritorna, si ondeggia tra saliscendi e pecore che attraversano la strada, si guarda e si riguarda lo stesso paesaggio con occhio sempre diverso: le ‘quattro stagioni in una giornata’ sono una realtà alla quale è impossibile opporsi, alla quale ci si arrende incantati al quarto passaggio sulla medesima strada, dove la luce mette in scena (se vuole, quando vuole…) uno spettacolo totalmente diverso dal precedente, seguendo un copione astratto e imprevedibile. Così, alla fine del viaggio, ognuno ha la ‘sua Irlanda’; intima e personale, la si può godere in un fazzoletto di pochi ettari o afferrarla visitando due o tre contee, è anche possibile cercarla per ore sotto un cielo cocciuto e ostile, per poi sentirsi ripagati da ogni attesa in una serata di musica e birra.

Appartenenza e mai possesso, questa è la regola, chi ha fretta si dedichi ad altri approdi. Inoltre in ogni viaggio irlandese arriva puntuale l’inclusione, quella particolare armonia che sigla la differenza tra una località ‘visitata’ e una che ‘visita te’, rendendoti felicemente partecipe dei suoi ritmi e delle sue regole. A partire dal traffico, che qui si accomoda in senso contrario come nella vicina (e sempre poco amata) Gran Bretagna. Ma questo è solo un aspetto, il primo ad essere servito come aperitivo, subito dopo aver lasciato l’aeroporto. Il resto arriva col tempo, ma di tempo ne serve poco. I tuoi orari sono i primi ad accordarsi: breakfast di protervia opulenza, gestione dei programmi mutevole come il clima, capacità di cogliere i particolari (ambientali, paesaggistici, umani) vivacemente accentuata, una completa dedizione a quella ‘green therapy’ che ti porta a considerare i maestosi benefici di un verde dominante, espresso dai mille toni della vegetazione che circonda, accarezza, dipinge e segnala ogni aspetto del panorama circostante.

Poi, dato che il verde non arriva per caso, ci si adatta con fatalismo indolente alla pioggia e ai suoi misteri. Praticamente giunge ogni giorno; ma dopo, quasi sempre, la tela del grigio si straccia in un attimo e la luce scende dorata lasciandoti immobile a guardare. A scrutare qualsiasi cosa, perché l’idillio può prendere forma sulle scogliere o in un villaggio, sulla facciata di una casetta tra i boschi come sulle rive di un ruscello: minimalismo pittorico da acciuffare al volo, un ‘carpe diem’ della bellezza alla portata di tutti.

Neanche la metereologia può dare suggerimenti: la cartina con le previsioni esposta sui quotidiani inalbera spesso un unico segnale (ripetuto per ogni angolo del paese): quello con la nuvoletta e dietro i raggi del sole. Variabile ovunque, variabile sempre. Così, dopo neanche ventiquattrore, sarà la tua versione irlandese del carattere a condurre il gioco; e ascoltarla porterà ad altre sorprese, a sempre nuovi incontri.


Il Connemara

Come la sera, nei pub, dove si entra da protagonisti in un film. Perché non può essere che cinematografico quello spettacolo di volti già antichi anche quando hanno vent’anni, quella rumorosa ilarità tra pinte di Guinness spillate da mani esperte, quella festosa partecipazione trasversale al rito della musica che coinvolge ospiti e residenti, ragazzini e anziani, musicisti affermati e guest star passate per caso.

La musica irlandese è qualcosa di più, e di diverso, rispetto a una tradizione, per quanto radicata sul territorio. L’intera isola vanta una colonna sonora di canti, suoni e danze che è patrimonio popolare, quotidiana fonte di svago, momento di aggregazione che valica barriere generazionali, passaggio obbligato per ogni momento comune; intramontabile, ma continuamente rinnovata, propone una base di musicisti immensa che impara a suonare nei pub e nelle scuole, in casa e a bottega dai più esperti, negli oratori e per le strade.

Il fenomeno simbolo di tutto il movimento sono le ‘family band’: formazioni aggregate attorno ad uno o più nuclei familiari, sovente arricchite da amici e vicini di casa; forti di un organico che può superare i cento elementi (si va dai sette agli oltre settant’anni di età), si radunano periodicamente in affollatissime kermesse tra torte fatte in casa, brindisi e danze. Sono incontri festosi dove non esiste barriera tra pubblico e interpreti, chi ha qualcosa da cantare (o da ballare) si esibisce in tutta semplicità, salendo sul palco, magari trascinato dai vicini. Nel nostro viaggio in Irlanda abbiamo assistito a due di queste serate: la ‘Seisiun Traditional Irish Music Night’ a Ballina, contea di Mayo, e la ‘Roundstone Traditional Irish Night’ nel Connemara.


Il primo dei due appuntamenti aveva come protagonista The Bofield Céili Band, condotta e diretta dall’infaticabile Peter Neary: al contempo insegnante di musica, interprete e padrone di casa. Nella grande struttura di un complesso religioso immerso nella campagna, ogni giovedì del mese di agosto (ma ci sono incontri mensili nel corso di tutto l’anno) sembra darsi appuntamento l’intera popolazione locale: famiglie, bambini, ragazzi, anziani, tutti a suonare, danzare e partecipare al trascinante rito collettivo.

La Band è costituita da diverse formazioni, divise per età ed esperienza, che si alternano in una irresistibile sequenza di brani, più volte arricchiti da balli ritmati e coreografici. Se all’inizio l’incontro rispetta una regia più rigorosa, nel corso della serata (circa tre ore di show, interrotte solo da un intermezzo con tè e pasticcini) l’atmosfera prende a surriscaldarsi con esibizioni spontanee, intermezzi recitati, gighe e ‘reels’ alle quali è impossibile assistere immobili. Atmosfera simile nella cittadina portuale di Roundstone, incastonata nel tratto più bello del Connemara costiero, dove le kermesse vengono organizzate da Christina Lowry. Anche in questo caso, oltre alla qualità degli artisti, colpisce la partecipazione trasversale di un pubblico che vive la propria musica come espressione collettiva irrinunciabile, il collante ideale per una comunità fortemente basata sulla famiglia. L’ospite non si integra solo velocemente ma viene salutato, coinvolto, persino applaudito per la sua presenza.

L’appuntamento di Roundstone è stato anche l’occasione per ascoltare dal vivo Johnny Mhairtin Learai Mac Donnchadha, anziano e struggente interprete del canto gaelico ‘a cappella’; la sua voce, ferma e solenne, emoziona col fascino di sonorità antiche che arrivano dritte dal passato e toccano corde profonde. In Irlanda la musica tradizionale è un vero movimento. Dietro gli artisti simbolo – Chieftains, Clannad, Altan, Dubliners, Mary Black, Wolfstone – si allarga una base dove il talento naturale non costituisce mai l’eccezione. La vitalità e l’evoluzione del genere sono assicurate dalle serate nei pub (migliaia di esibizioni quotidiane), dai numerosi ‘campionati’ (dove le città o le contee premiano annualmente gli interpreti migliori divisi per categoria), da un gusto per la contaminazione che ha toccato band e artisti universalmente noti, dai Pogues a Sinead O’Connor.


Il Connemara nei pressi di Cashel

Se poi volete portarvi appresso dei cd per stupire gli amici scegliete i Kila: praticamente sconosciuti in Italia, interpretano brani di formidabile intensità, tra echi ancestrali e contaminazioni a 360 gradi, propongono suoni e ritmiche travolgenti, dove la voce arcaica e potente di Ronan O Snodaigh si accosta e si alterna a soluzioni di sognante bellezza. Estro, tecnica e anima schiettamente popolare per la musica ma anche per la danza. Quando esplodono jigs e reels – le ballate più accese – si avvertono immediatamente due elementi caratterizzanti: il perdurare degli accordi base (ripetuti in un crescendo circolare e ostinato) e le variazioni sul tema (improvvise, incontenibili, spesso virtuosamente sorprendenti) fanno sì che ogni pezzo, anche il più noto, sia riconoscibile ma sempre diverso. Parallelamente la danza se ne impossessa e mette in scena ciò che l’orecchio ascolta.

I ballerini, uomini e donne, in gruppo o da soli, partono rigidi, immobili, per poi scandire il ritmo coi piedi; nel movimento successivo sono le ginocchia ad alzarsi con scatti improvvisi, slanci rapidi che portano all’elevazione, movenze solo apparentemente brusche che preparano al volteggio e al ribattere, quasi feroce, dei tacchi verso il suolo.

Quando la musica cresce tutto si accentua, fino a diventare freneticamente ordinato, irresistibilmente coinvolgente. Dopo arrivano le coreografie, gli incroci, le evoluzioni che lasciano spazio al singolo (come nella jazz dance o nel tip tap) per poi accordarsi su movimenti collettivi di precisione assoluta, con un gusto per l’insieme dove danza classica e popolare annullano i propri confini.

Detto che il ballo si apprende tra le mura domestiche poco tempo dopo aver compiuto i primi passi, le occasioni per crescere di livello sono le medesime per ballerini e musicisti, praticamente infinite. Da quindici anni l’approdo leggendario e spettacolare per ogni adepto è rappresentato dal musical Riverdance. Lo show concepito sulle note di Bill Whelan (prodotto da Moya Doherty e diretto da John McColgan) è stato rappresentato in tutto il mondo con riscontri numerici da capogiro: circa diecimila rappresentazioni dal vivo, 350 tournée internazionali, record di presenza battuti a ripetizioni in trenta paesi, decine di milioni di spettatori per gli spettacoli televisivi. Riverdance, vera esaltazione della musica e delle danze locali, ha rappresentato l’orgoglio di un paese in pieno boom economico, ma fiero di un passato duro e tenace, temprato dalla povertà e dall’emigrazione. Le vicende abbracciano 1500 anni di storia, dai miti gaelici all’approdo oltre Atlantico, nella terra dove 47 milioni di americani vantano origini irlandesi.

Per presentare il nostro viaggio siamo partiti dalla musica e dalle emozioni prima che dall’itinerario. Tornando al concetto del percorso verticale si può scoprire – come nel nostro caso – che il chilometraggio ha un significato puramente simbolico. Volendo (ma non avrebbe alcun senso) è possibile effettuare il tragitto da Dublino al Connemara e ritorno in una giornata scarsa. Noi ci abbiamo messo dieci giorni, ma avrebbero potuto essere sette o ventiquattro; quello che conta è la disponibilità di tempo, la voglia, le occasioni, il resto arriva da sé. Così è più semplice ragionare su tappe e luoghi di residenza. Anche perché il concetto di albergo, bed & breakfast, dimora o relais va inteso, anche in questo caso, all’irlandese.


Le scogliere di Achill Island

Nell’isola smeraldo non si soggiorna solo per dormire, rifocillarsi o godere di un momento di quiete; perché vale, sopra ogni altra cosa, l’immersione nel luogo, la capacità di cogliere i dettagli, il contatto umano e ambientale rinnovato a ogni approdo. La nostra prima meta è stata Ballina, contea di Mayo, dove abbiamo incontrato la Bofield Céili Band.

Nell’idillio di una campagna dolcemente accomodata lungo le rive del fiume Moy si trova il Mount Falcon Country House Hotel. In quello che si può semplicemente descrivere come un castello immerso nel verde di alberi secolari, gli ospiti godono di un’accoglienza calorosa ma anche riservata, attenta a ogni aspetto del benessere: edonistico, sportivo, ecologico e gastronomico. Dopo aver stimolato l’appetito dedicandosi al golf, al fitness o al walking, l’appuntamento serale prevede un gaudente confronto con la ‘New Irish Cuisine’ di Philippe Farineau: impeccabili sapori e prodotti del territorio, grandi vini del mondo, un ‘french touch’ che esalta il tutto con garbo e fantasia. A questo punto la nostra rotta punta con decisione verso occidente, per esplorare un tratto di costa dove la complessità geografica (promontori, penisole, insenature, baie, continui e repentini mutamenti dello scenario) ha preservato un mondo di tradizioni e saperi tenacemente ancorati al passato gaelico dell’isola. Qui la lingua originaria è ancora quella degli antichi celti, si praticano con entusiasmo gli sport degli avi (hurling e football irlandese), mentre la cucina propone quasi esclusivamente varietà a ‘chilometri zero’.

Dopo aver percorso i dedali costieri di Achill Island, con la brughiera battuta dal vento che termina dove iniziano le onde, ci si avventura nel Connemara: un luogo unico circondato da posti speciali, lo spazio magico dove la natura ospita l’uomo per incantarlo nei suoi disegni. Letteralmente Connemara significa ‘insenature del mare’: definizione eloquente, dato che la costa esclude a priori ogni linea retta.


Ma l’interno non è meno stupefacente: un manuale di geologia a cielo aperto di enciclopedica varietà, la roccia confina con la torba, i rilievi si specchiano nelle acque, e le acque non sai mai da dove arrivino, che si gettino nel mare o sbuchino dall’oceano poco conta; decorano, ornano e dipingono, tanto basta. Della luce abbiamo già detto, così sgraniamo gli occhi e tiriamo avanti…

La cittadina più nota, Clifden, ospita una delle più sorprendenti ‘case del viaggiatore’ che ci sia mai capitato di incontrare. Si chiama The Quai House, dalle sue finestre si vede una stretta insenatura e un angolo di porto, coi gabbiani che volteggiano e intonano la colonna sonora dei naviganti. Detto che la colazione, servita in un giardino d’inverno vittoriano, si guadagna ogni anno riconoscimenti per il breakfast ideale, la location meriterebbe una visita solo per l’arredo di ogni sala e delle camere (sette in tutto): libri ovunque, cimeli africani, oggetti indiani, idoli in legno dalla misteriosa bellezza, un ‘dovunque arrivato da ogni dove’ che quasi si stenta ad afferrare al primo sguardo. Ancora con gli occhi pieni di cose si raggiunge il centro per il rito del pub.

La musica guiderà anche voi verso Connely’s, dove, ogni sera, la festa è segnalata dai virtuosismi sonori del fiddle: il tipico violino irlandese, la mutazione locale concepita per assecondare ogni fantasia degli interpreti.


La Guinness Storehouse

Proprio di fronte alla costa del Connemara merita senz’altro un’escursione (o anche un soggiorno di più giorni, sarebbe un incanto) l’isola di Inishbofin: meno battuta delle più celebri Aran ospita gente solitaria e accogliente dai modi spicci, da sempre abituata a regolare il destino con le proprie mani. Il nostro padrone di casa – Pat Coyne, proprietario del Dolphin Hotel – ci ha così sintetizzato lo spirito locale. «Qui nessuno ha un lavoro solo. Se vivi in un’isola devi saper fare di tutto: sei pastore, albergatore, carpentiere e pescatore allo stesso tempo. Fai quello che serve quando serve; agli orari ci pensano il tempo e le necessità».

Già monastero di San Colmano in fuga dalle autorità religiose, poi base di appoggio per la regina dei pirati Grace O’Malley, la storia di Inishbofin è anche legata alle armate di Cromwell, che vi edificarono una prigione inespugnabile; oggi, tra gli incantati rilievi segnati da panoramici sentierini, vagano placide le pecore e sbucano casette da fiaba. Tra una camminata e una sosta al pub ogni visitatore impara presto a gestire il proprio tempo: si guarda e si cammina, si mangia, si legge e si beve, una vittoria della semplicità da celebrare senza fretta. Medesime sensazioni, una volta tornati a terra, per il Delphi Mountain Resort di Rory e Aileen Concannon.

Siamo nel cuore del Connemara, in un country hotel che sembra emergere dal paesaggio senza soluzione di continuità. Le possibili attività spaziano dalla semplice contemplazione (inimitabile e consigliata) al rafting, dalle escursioni in mountain bike al trekking, dal relax nella spa all’esplorazione gastronomica dei piatti di Gerard Reidy, guru dell’organic food, definizione che gli irlandesi preferiscono al continentale, e qui poco amato, ‘biologico’. Rory definisce la ‘missione’ del suo resort con un pizzico di ironia: «Il nostro non è un hotel ‘ecologico’, che non so bene cosa significhi, ma ‘etico’. Qui tutto deve essere ‘buono’, per noi come per l’ambiente, per il personale come per il cliente, con il quale si stabilisce un patto, un accordo. Perché il ‘buono’ c’è nei presupposti, ma deve essere anche ricordato dopo. Al Delphi facciamo quello che è giusto fare per il comfort, ma non le cose inutili. Per esempio, solo se non hai le mani, ‘buono’ vuol dire trovare qualcuno che ti parcheggi l’auto o ti rimbocchi le lenzuola».


Il musical Riverdance

Tornando sulla costa lasciatevi incantare dal fascino aristocratico del raffinatissimo Cashel House Hotel (a pochi minuti di auto dal villaggio omonimo): una dimora nobiliare gestita con classe e garbo da Kay McEvilly, signora elegante e cortese al cui occhio attento non sfugge alcun dettaglio, dai menù di inimitabile eccellenza a ogni particolare del servizio, dal giardino agli arredi, messi in scena con un gusto esclusivo fuori dal tempo. Nel 1969 ci soggiornò il generale De Gaulle con signora.

L’ultimo colpo d’occhio prima di lasciare la costa occidentale – e che colpo d’occhio! – lo meritano le Cliffs of Moher: il simbolo verticale e roccioso di tutta l’isola, le scogliere mozzafiato per eccellenza, le ripidissime anse di un tempio in pietra che sembra concepito col gusto dei giganti.

Raggiungono anche i 203 metri di altezza e si affrontano con una passeggiata di ipnotica bellezza, superando in fila indiana un trasgreditissimo divieto che vorrebbe limitare l’accesso al tratto più panoramico del percorso.

Il nostro itinerario termina dove è iniziato, cioè a Dublino. I musei e lo shopping, la vita notturna nei locali di Temple Bar e la ricchezza acciuffata negli anni della Keltic Tiger (oggi provata dalla crisi economica, ma recente motore di ogni trasformazione), il vecchio e il nuovo, le tradizioni e il multietnico che avanza (un abitante su dieci della capitale arriva dall’estero), Dublino è una metropoli globale che non dimentica le proprie radici. La sintesi ideale si coglie al Gravity Bar, in cima alla Guinness Storehouse, a 46 metri dal suolo, con una pinta tra le mani e la città stesa sotto i nostri piedi. La storica azienda ha compiuto 250 anni il 24 settembre; ma, nonostante abbia conquistato il mondo (10 milioni di bicchieri all’anno degustati in 150 diversi paesi), non ha rinunciato a quel sapore interpretato quotidianamente come una scienza esatta. Dublino è come lei: i cambiamenti aggiornano l’etichetta ma non toccano la sostanza. Però questo è già un altro viaggio, il nostro – invece – ha ancora negli occhi il Connemara e la costa occidentale. Così, continuando a saccheggiare le strofe di Fiorella Mannoia, aggiungiamo semplicemente che «il cielo d’Irlanda è Dio che suona la fisarmonica, si apre e si chiude con il ritmo della musica. Dovunque tu sia viaggiando con zingari o re il cielo d’Irlanda si muove con te…».

Da sinistra: Un pub di Temple Bar, il Roundstone Traditional Irish Night e il collaudo dei Bodhran a Roundston



Foto Guido Barosio



Guido Barosio, giornalista, fotografo e scrittore, è direttore della rivista Torino Magazine e dell’Agenzia di Stampa nazionale LaPresse.