Il blog di Giancarlo Barbadoro

Perché la mia anima animalista

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15 Ottobre 2013


Quando ero ragazzo e abitavo a Crescentino, nel vercellese vicino al fiume Po, a un chilometro dal centro urbano c’era una vera e propria foresta, rigogliosa ed estesa come giusto che fosse. Andarci in mezzo era il mio obiettivo che ottemperavo più o meno a giorni alterni.. Facevo grandi passeggiate in cerca di solitudine e di contatto con la natura, propriamente selvaggia, e tutte le creature che l’abitavano.

C’erano alberi di ogni genere, felci in gran quantità e vegetazione di ogni tipo, fiori bellissimi, sorgenti a filo del terreno e acquitrini con rigogliosi canneti. Qui coglievo le canne da terra per intagliarle e farne dei flauti improvvisati con cui mi mettevo a suonare improbabili melodie. Che sicuramente incuriosivano i vari abitanti del posto, tanto che qualcuno veniva a vedere che cosa stavo facendo. Mi illudevo anche che piacesse quello che suonavo.

Le interazioni che ho avuto con queste creature, per lo più corvi, lepri e daini, ma una volta anche una mucca, mi aprirono irrimediabilmente alla curiosità verso le altre specie che vedevo in grado di intuire il senso della musica. Mi fu molto chiaro anche che, al di là di quanto era luogo comune in quelle campagne, queste creature erano esseri senzienti in grado di provare emozioni e di dialogare. Anche se dialogare poteva essere un eufemismo, accettando per questa modalità di interazione il semplice contatto ravvicinato. Alle volte anche molto ravvicinato.

Tuttavia questa foresta non era un Eden. Una volta è successo che mentre stavo passeggiando su un sentiero che solo io conoscevo, in riva al fiume, sentii sparare dei colpi di doppietta. Poco dopo trovai ai miei piedi una lepre, o un coniglio selvatico, che era venuto a mettersi tra le mie gambe. Era chiaramente spaventato, me lo ricordo. Non so perché, ma cercava proprio rifugio da me.

Pochi istanti dopo, dalla boscaglia ne uscì un cacciatore con piglio deciso. Me lo ricordo come un orco spaventoso con i suoi occhi indimenticabili, sudato e affannato. Me lo ricordo come l’immagine di un sanguinario Tyrannosaurus Rex che usciva dalla foresta del triassico per inseguire inesorabile la sua preda.

Mi puntò lentamente il fucile contro e mi disse di levarmi di mezzo. Ovviamente gli dissi di no. Mi rispose che non importava, che avrebbe sparato lo stesso. Gli chiesi se era pazzo.

Ma niente. Posò la doppietta a terra e mise mano a una pistola a tamburo con cui sparò tre o colpi mirati e precisi uccidento il coniglio. Si avvicinò e gli diede un calcio dicendo che non valeva nulla perché era oramai ridotto a brandelli.

Fu una esperienza surreale e terribile in cui provai l’impotenza contro la violenza cieca di quelli che ancora oggi mi viene da chiamare “demoni umani”.

Ma ricordo ancora oggi lo sguardo folle di quell'uomo, lo stesso che aveva quando lo incontrai casualmente in un bar di Crescentino dove tutti lo chiamavano "dottore". Era lo sguardo di uno psicopatico, dalla faccia pulita e dai modi garbati, ma ai miei occhi pur sempre un insospettabile e pericoloso psicopatico.

Mi ricordo quanto piansi quel giorno per quel povero coniglio che non sapeva come sfuggire al suo inseguitore e io non avevo potuto fare nulla per aiutarlo.

Per questo motivo ancora oggi mi dedico anima e corpo per portare una parola di rispetto e di dignità per i nostri comuni fratelli, tutti figli di Madre Terra, e salvare più creature indifese che posso da questa follia senza senso.

Non ce l'ho tuttavia con i cacciatori. Li vedo come persone malate e pericolose, stando alle cronache recenti, che dovrebbero solamente essere curate.

 

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