Leggende e Tradizioni

Millaures: una maestra, la scuola e un mondo antico

Stampa E-mail
17 Aprile 2014

La maestra Gleise a Thures

La profonda trasformazione di una frazione di Bardonecchia nel racconto di un'insegnante


Poche località montane hanno subito, negli ultimi decenni, le trasformazioni profonde e convulse di Bardonecchia e delle sue frazioni. Le cartoline d’anteguerra mostrano, intorno e al di sopra di esse, ampi spazi liberi e soleggiati, terreni scoperti e terrazzati, adibiti alle colture. Il confronto con la realtà odierna, fatta di cementificazione, di ville e di condomìni, o di boscaglia che ha sommerso le antiche vestigia, non potrebbe essere più netto. Oggi, ad esempio, persino una borgata come Horres, che era stata l’alpeggio della gente di Millaures, è sede di villeggiatura.

Rinvenire le tracce del passato è sempre più difficile. Tuttavia, parlando con la signora Augusta Bellet Gleise, che per tanti anni ha svolto il ruolo di maestra a Bardonecchia e nelle frazioni, o leggendo l’attenta ricerca della Prof.ssa Daniela Garibaldo su Millaures, ho potuto rivivere, almeno con il pensiero, il mondo di un tempo: i paesi, le comunità, il lavoro e, naturalmente, la scuola, così lontana dalla realtà cittadina attuale. Un mondo di cui è importante parlare, non solo per serbarne il ricordo, ma anche per impararne qualcosa.


Uno sguardo alla storia

La conca di Bardonecchia, in origine, era un lago, a quanto risulta prosciugato dai Saraceni nel X secolo. L’antica parrocchiale del Borgo Vecchio era appunto chiamata “S. Maria ad lacum”. All’intorno vi convergono la Valle Stretta, quella della Rho, i valloni del Frejus e di Rochemolle (“Arciamurra”), nel quale confluisce la Valfredda. La zona, riparata dai venti di tramontana e circondata da pendii poco acclivi, è sempre stata idonea agli insediamenti umani. Infatti fu occupata dai Celti fin dalla preistoria.

Il primo documento a nominare il territorio di Bardonecchia, allora dipendente da Novalesa, è del 726. Viene citata dapprima come “Bardisca” o “Bardonisca”, poi “Bardonesca” e solo nel 1365 Bardonecchia. L’origine del nome è controversa. Secondo alcuni risale ai Longobardi, detti semplicemente Bardi, con aggiunta del suffisso –isk (lat. –iscus); altri la ricollegano alla radice celtica “Bar”, indicante “rocca”, “luogo elevato o fortificato”, come anche nel caso di Bard, Bar Cenisio, Barbania (significato rilevabile, altresì, in Irlanda e Galles).


Neve a Rochemolle

Nel X sec. la zona fu occupata da Saraceni provenienti dalla Provenza (conquistarono Novalesa nel 906), che si stabilirono in alta valle; scacciati i quali subentrarono al potere casate francesi. Si contesero il territorio i conti di Savoia e quelli di Albon (Delfinato), che prevalsero alla fine del XII sec. Nel 1349 Bardonecchia divenne feudo francese, ma già trent’anni prima aveva ottenuto, con Beaulard, Millaures e Rochemolle, un particolare statuto, che concedeva a tali Comuni un’ampia autonomia, confermata dai sovrani transalpini. È del 1343 l’ingresso nella Repubblica degli Escartons, a cui aderivano le valli Varaita, Chisone, Oulx, Queyras e Briançon, la quale ospitava le assemblee dei rappresentanti di villaggio. Una serie di autonomie e vantaggi in campo politico ed economico rese privilegiata tale comunità rispetto a tante altre zone alpine e rurali. Non è che il principe del Delfinato fosse più generoso di altri: semplicemente aveva bisogno di denaro, per cui si fece pagare profumatamente le sue concessioni.

Il quadro, però, non sarebbe completo se non accennassimo ad altri due importanti fattori. Anzitutto qui siamo in territorio occitano, il che significa l’appartenenza ad una realtà linguistica e culturale più viva e progredita, ad es., di quella franco-provenzale, con la possibilità di intensi rapporti e scambi commerciali con i più sviluppati paesi d’oltralpe. In secondo luogo la zona fu toccata dal valdismo, che poneva tra i valori più importanti l’istruzione popolare, grazie alla quale l’analfabetismo fu pressoché cancellato e furono promossi i valori morali e civili. Il mondo degli Escartons si dissolse nel 1713 con la pace di Utrecht (Guerra dei Trent’Anni), in virtù della quale il confine tra Francia e Piemonte fu portato allo spartiacque alpino. I Savoia erano autoritari, accentratori e tassatori esosi. Si alienarono ogni simpatia della gente locale, che continuò a rimpiangere la Francia, alla quale fu attribuito il primato per l’economia, il commercio, l’emigrazione (che non ebbe certo come meta Torino), la lingua e la cultura. Racconta la signora Gleise che, per rilevare che un tessuto era di qualità, lo si definiva “boun bütin de France”. Verso la gente della bassa valle (detta, con intento dispregiativo, “lou de valloùn”) ed i Piemontesi in generale sussisteva non poca ostilità. Quando era all’alpeggio, la nonna materna della signora Gleise vendeva volentieri latte e uova ai gitanti che glielo chiedevano in italiano o in francese, ma era assai restìa verso chi parlava il piemontese.


Cime e guglie in Valle Stretta

Nel secondo ‘800 i lavori per la costruzione della ferrovia e del tunnel del Frejus portarono lavoro e reddito fisso ai montanari, frenandone l’emigrazione, ed altrettanto avvenne quando la strada ferrata entrò in funzione. Anche il padre della signora Augusta divenne ferroviere e si trasferì in bassa valle e poi a Bardonecchia, salendo a Millaures solo per aiutare i genitori, che si occupavano ancora del bestiame. Pure il turismo d’elite, che lasciò ville di pregio, divenne una risorsa: per molti era più vantaggioso vendere il latte ai villeggianti ed agli esercizi pubblici, che utilizzarlo per la produzione di burro e formaggio.

Dagli anni ’60 in poi il turismo e la speculazione edilizia hanno sconvolto l’ambiente geografico ed antropico, tra l’altro recando con sé, come hanno evidenziato i giornali, personaggi collusi con organizzazioni criminose. La corsa al profitto, allo “sviluppo” caotico, ha fatto perdere non solo ogni etica, ma anche il buon senso. Ancora su La Stampa del gennaio 2014 si riferisce come, pur avedo realizzato strade e piste d’ogni tipo, nessuno si sia curato di risolvere il problema della strettoia di Millaures, dove le auto formano colonne chilometriche ed ammorbanti.


Il mondo dei montanari

Se Bardonecchia fu toccata abbastanza presto dal turismo, le frazioni mantennero fin verso la metà del ‘900 buona parte della propria fisionomia. Millaures (Miaraura in occitano) era costituita da una serie di frazioni sparse, ognuna con la sua cappella, spesso adorna di pregevoli affreschi (quelli di Horres risalgono al sec. XVI). In ogni sacro edificio era conservata una “arci” (madia) divisa in scomparti, uno per ogni tipo di cereale, che i fedeli recavano per la festa patronale o in Quaresima per la Messa “pro offerentibus”. Ad es. a Millaures il grano donato era poi venduto per acquistare ceri ed altre suppellettili. Gli usi religiosi mostrano l’influenza del valdismo: nelle veglie serali non si recitava il rosario né era consuetudine narrare vicende di masche, che altrove spaventavano i bambini.


Scorcio invernale della chiesa di Millaures

“Miaraura” (nome che deriverebbe dal latino “Miratoria”, per la posizione panoramica) si suddivideva in borgate sparse (come il Percià, i Blanc, il Rouchass, Gleize, Serre e così via) ed era sede della parrocchiale di S. Andrea, che fu rifatta nel sec. XIX, ma conserva un imponente campanile romanico. Anche alla domenica, all’alba, i montanari svolgevano i lavori agricoli (“fa’ materià) e" poi andavano a Messa, dopo la quale gli uomini erano soliti soffermarsi a chiacchierare sul sagrato. Non era, però, che le donne fossero emarginate. È eloquente, al riguardo, il detto “la fënna il a ‘l casü”, vale a dire “è la donna che ha il mestolo”. Ogni frazione era autosufficiente, ma talvolta capitava di unire gli sforzi, come quando si trattò di realizzare (allorché i lavori per la ferrovia avevano tagliato le fonti d’acqua) la “Gran Bea”, il canale che attingeva dal torrente di Rochemolle, garantendo il rifornimento idrico.

C’era invece rivalità, non solo con la gente della bassa valle, ma anche fra Comuni contigui, come testimoniano i soprannomi poco lusinghieri riservati agli abitanti: quelli di Bardonecchia erano “lou louse” (i lupi), a Rochemolle c’erano “lou veça” (un’erba scadente), a Melezet “las vacchas chaudas (gli scalmanati). Quelli di Millaures, poiché l’allevamento del maiale era diffuso in modo generalizzato, presso tutte le famiglie, erano “lou Gourìn”. Quando, nel 1927, le varie comunità furono tutte accorpate sotto Bardonecchia, differenze e rivalità si attenuarono, fino alla omogeneizzazione dei tempi recenti, con lo spopolamento ed il turismo.


Agricoltura ed allevamento

Ad un censimento del 1713 (proprio dopo Utrecht), racconta la signora Gleise, risultò che l’attività agro-pastorale era assai più redditizia che altrove, ad es. rispetto alla bassa valle, dove prevaleva la mezzadria. La produzione agricola era incentrata sui cereali, soprattutto segala, ma anche orzo e grano; quest’ultimo, però, in misura ridotta, perché i raccolti erano assai alterni. “Chi smenë frument, tajou s’erpent” (chi semina grano, sempre si pente), diceva un proverbio. Per far riposare i terreni, la segala (che non veniva “ramata”) era alternata, di anno in anno, con l’erba medica, e non con le patate (come avveniva altrove). A queste ultime erano riservati campicelli ben irrigati e concimati, più vicini al villaggio.

La maturazione dei cereali era problematica nelle località più elevate per la rigidità del clima. A Thures (m 1600) seminavano ad agosto la segala da mietere nel settembre dell’anno dopo. A Rochemolle la maturazione tardiva dei cereali, che al momento del raccolto talora erano ancora umidi, costringeva a farli asciugare ulteriormente sui balconi. La battitura avveniva al chiuso, in un locale del solaio attiguo al fienile. Quando li si portava al mulino, il mugnaio li controllava e, se non era soddisfatto, li stendeva ancora su un telo al sole. Per ogni sacco di grano o segala da macinare, al mulino se ne portavano tre: uno per la farina scelta, uno per quella più grossolana (usata ad es. per il “pan bülì”) ed uno per la crusca, riservata agli animali. Nei tempi e turni prestabiliti si procedeva quindi alla cottura del pane. Nel territorio di Millaures c’erano nove forni; uno era stato acquistato da un nobile già nel XVI secolo, come risulta da un documento. Il pane si conservava sulle “cëvilhìë”, dei pali con pioli sporgenti, appesi al soffitto, nella “chambrë dou pan”.

Al bestiame si riservavano cure meticolose. Ognuno possedeva dalle due alle quattro mucche, un maiale e sette-otto pecore. Le capre erano assai rare, roba da poveri, tenute ad esempio da chi abbisognava di un po’ di latte per i bambini. Ai bovini si davano l’erba medica ed il fieno migliore (“fen ‘d metiu”), raccolto nei prati più bassi (quello d’altura, più povero, era detto “fen servaggiu”), scartando le erbe più grossolane, come la genziana ed il carice (“kerè”). In genere si preparava loro un pastone di fieno, erba medica e crusca, inumiditi con acqua calda. La mamma della signora Gleise, ogni sera, toglieva dalla greppia gli steli più spessi, rifiutati dalle mucche, e li dava alle pecore. Per queste ultime si usava il secondo fieno (l’ arcòo) misto a paglia.


Scorcio di Millaures

Data l’altitudine di partenza, non c’erano “muande” o “tramüd” successivi. Da Millaures si saliva direttamente all’alpeggio di Horres, sui pendii prativi dello Jafferau, dove le case costituivano un nucleo unitario, come alla Brua, dove si recava la gente di Gleize. Vi si restava da giugno a metà settembre. Per il pascolo la mandria di tutto l’alpeggio era affidata, a turno, a due uomini e due ragazzi. Mentre gli anziani restavano alle baite, per occuparsi del burro e del formaggio, gli altri adulti scendevano in paese, per lavorare nei poderi, e risalivano alla sera. C’era poi chi, lavorando alla ferrovia, come il padre della signora Gleise, ritornava su a fine giornata per dare una mano. Il gregge delle pecore, in tempi più lontani, era guidato a turno da uno dei proprietari, ma in seguito fu affidato ad un guardiano retribuito.

La fienagione presso le borgate iniziava a luglio, mentre “a lë mountanhë” il bando comunale lo fissava al 9 agosto. L’erba era abbondante e consentiva quasi a tutti di tenere anche un mulo. Le donne passavano con il falcetto, dove non era possibile il taglio con la falce, ma non era una pratica sistematica come nelle Valli di Lanzo, dove gli spazi erano assai più ridotti. Affilare la falce era un’arte, che i padri insegnavano ai ragazzi verso i dodici anni. Per mantenere una mucca occorrevano 15-16 “troussë” (carichi) di fieno. Se il raccolto era stato scarso, a fine inverno erano guai. Un antico detto affermava: “A Nostra Signora di febbraio, metà fieno e metà paglia”, poiché, scarseggiando il foraggio, lo si mescolava con quest’ultima.

Alcuni utilizzavano il latte per ricavarne formaggio e burro (che era avvolto in foglie di genziana), ma altri, con il turismo ormai imperante, preferivano venderlo ai villeggianti ed agli esercizi pubblici. Quando si trovavano all’alpeggio, molti affidavano al conducente della decauville, operante nei lavori per la ferrovia, delle borse piene di bottiglie, che i parenti rimasti in paese andavano a ritirare alla stazione d’arrivo. La signora Gleise ed il fratello Ernesto, che al tempo erano ragazzini, da Millaures o da Horres portavano a spalle un bidone pieno di latte all’albergo Savoia di Bardonecchia. Spesso il padrone, impietosito, offriva loro una fettina di torta.


La scuola di allora

Tutto il territorio degli Escartons conobbe un alto livello di alfabetizzazione, che lo differenziava da altre aree montane. Gli inizi di tale fenomeno si collocano nel sec. XI, quando, dopo le invasioni saracene, la prevostura di San Lorenzo di Oulx risorse e tornò a svolgere il proprio ruolo culturale nelle Alpi valsusine e nel Delfinato. I monaci istituirono un collegio per preparare dei buoni maestri e, nel 1572, rinunciarono ad un quarto delle decime loro dovute, purché ogni Comune della zona, oltre ad un predicatore per la Quaresima, pagasse un maestro per istruire i ragazzi. Così, in autunno, i sindaci scendevano a Briançon per la Fiera Maestra, dove assumevano gli insegnanti. Costoro, per evidenziare il loro ruolo, portavano, infilate nel cappello, delle piume: una se abilitati all’apprendimento di lettura e scrittura, due se conoscevano anche il calcolo, tre per il latino. I risultati furono tali che, divenuti adulti, parecchi valligiani scendevano ad insegnare in bassa valle.


Scorcio di Bardonecchia. In bella evidenza i pendii ancora ben tenuti

All’insegnamento elementare, compresi gli aspetti civili e religiosi, fu attribuita importanza anche successivamente, ed a questo contribuì la circolazione delle idee valdesi. Le famiglie compresero il valore dell’istruzione, per cui non capitava, come in altre zone alpine o rurali, che la frequenza fosse saltuaria per la necessità di adibire i ragazzi ai mestieri agricoli. Non che qui essi non lavorassero, ma lo facevano prima e dopo l’orario scolastico. Ad esempio la nonna materna della signora Gleise, all’alpeggio, non lasciava mai inattivi i nipoti, assegnando loro molteplici compiti. Un dato significativo, dal punto di vista economico e sociale, è il fatto che non esisteva la figura dei “bocia”, i bambini che i genitori poveri mandavano a lavorare già a sei-sette anni sotto padrone, il quale spesso e volentieri li maltrattava (e penso alle memorie di tanti anziani o al libro di Nuto Revelli “Il mondo dei vinti”). Ognuno stava con la propria famiglia, da cui riceveva gli insegnamenti pratici, morali e religiosi. La nonna, mi ha detto la signora Augusta, insisteva sulla pulizia (ad es. lavarsi bene le mani, ma fregandole sul sapone senza immergerlo, per ridurne il consumo), ed ha aggiunto con orgoglio che la bestemmia si diffuse in alta valle solo con l’arrivo di boscaioli bergamaschi, chiamati ad occuparsi del legname.

Nell’area degli Escartons non troviamo nemmeno l’immagine, persino stereotipata, degli allievi che portavano a scuola, per scaldarsi, un pezzo di legno ciascuno. Al riscaldamento delle aule e della camera della maestra provvedeva il Comune tramite le corvées: in un giorno prefissato gli uomini del paese provvedevano al taglio ed alla fornitura di legname. Parimenti esisteva un Patronato che procurava il materiale scolastico ai meno abbienti.


Le esperienze di una maestra

Il lavoro di ferroviere aveva condotto il padre della signora Gleise a trasferirsi via via in vari centri della bassa valle con la famiglia, ma poi era tornata al paese per aiutare i genitori ormai anziani. Da Millaures, quando avevano sui cinque anni, la signora Augusta ed il fratello Ernesto, di notte, ammiravano in basso le luci di Bardonecchia, pensando fossero stelle cadute dal cielo. E, quando vedevano il treno sbucare dalla galleria di Rocca Tagliata, gridavano festosi: “Treno, treno, portami un pezzo di pane e cioccolata !”. Quel pane e cioccolata che compravano a Bardonecchia, dove scendevano, magari in slittino, per andare all’asilo e poi a scuola (in quel periodo a Millaures era stata soppressa), con il soldino dato dalla mamma.

Quando fu “grande”, i genitori decisero di far proseguire gli studi alla figlia Augusta, non prima di aver consultato i suoi fratelli maggiori, che ormai lavoravano in Francia. Frequentò un collegio a Torino, il cui costo era oneroso per i genitori, e si diplomò maestra. Il suo primo incarico, nel 1945, fu a Rochemolle, con una pluriclasse. Soggiornava lì e tornava a casa, a piedi, solo a fine settimana. Era un periodo difficile, verso il termine della guerra. La scuola era stata bombardata, per cui le lezioni si svolgevano in canonica, usando un pezzo superstite della lavagna. Per la ricorrenza patronale di Gleise (S. Eldrado) una sua giovane collega, che era di lì, aveva chiesto al direttore un giorno di permesso per partecipare alla festa. Costui non le rispose nemmeno; tuttavia, sapendo che anche la signora Augusta era di quei paraggi, si recò fino a Rochemolle per controllare che non ci fosse andata di soppiatto. Ma lei era così contenta dell’incarico appena ottenuto che della festa non si era manco ricordata. Il direttore ne approfittò per effettuare anche una verifica con gli allievi e ad un bambino di seconda fece recitare una poesia.


La maestra Gleise in costume locale

I tedeschi, per garantirsi la ritirata, avevano minato la diga di Rochemolle, dove avevano lasciato un presidio di alpini. Quando scendeva a Bardonecchia per commissioni, la signora Gleise si recava dal referente locale del CLN, il quale le affidava una lettera, da consegnare ad uno di quei soldati, e non era un rischio da poco. Un giorno, poi, si trovò ad affrontare una situazione difficile. Gente del posto aveva rubato ai tedeschi delle patate rinsecchite, più per spregio che altro. Questi ne pretesero la restituzione, pena una dura rappresaglia. Cercavano un’autorità del paese che andasse a convincere i responsabili e, non trovando nessun altro, mandarono lei, giovanissima. L’anno successivo ebbe l’incarico a Cesana. Andava fino ad Oulx in treno e poi compiva a piedi l’ultima parte del tragitto, che non era breve. Ma non era solo lei a camminare fin lì. Ad esempio i ragazzi di Fenils frequentanti la IV e la V si facevano l’intero percorso fino a Cesana. Il 1947 fu un periodo movimentato, poiché fu mandata prima a Thures (dei cui abitanti ricorda la cordialità ed il rispetto per la figura della maestra), quindi a S. Colombano di Exilles e poi, a fine anno, a Gleise. Finalmente, vinto il concorso, ebbe la sua cattedra fissa. Scese a Torino, dove potè scegliere come sede proprio Millaures, ed al ritorno ebbe la gioia di trovare il padre ad aspettarla alla stazione e di comunicargli la bella notizia che sarebbero tornati a stare insieme.

Dopo il matrimonio la signora Gleise si trasferì a Melezet e quindi, nel 1955, a Bardonecchia, dove fu titolare di una monoclasse. L’impegno era meno gravoso della pluiriclasse, nella quale occorreva organizzare e sincronizzare alla perfezione il lavoro, dovendo badare a bambini di età e livello di sviluppo assai diversi. Ad esempio, nel famoso giorno in cui era venuto il direttore a Rochemolle, a quelli di terza aveva assegnato delle equivalenze, a quelli di seconda l’apprendimento di una poesia e frattanto, sul frammento di lavagna sopravvissuto, mostrava ai “primini” la differenza fra c dolce e c dura. Comunque anche la monoclasse non era uno scherzo, componendosi di una trentina di allievi. Certi insegnanti del 2000 (magari in classi con il doppio docente !) considerano eccessivi venti alunni e si sono lamentati per anni di non poterli seguire bene (non parliamo di tutte le proteste e manifestazioni degli ultimi anni!). Eppure gli allievi della signora Gleise uscivano dalla scuola elementare sapendo leggere, scrivere e far di conto, cosa che attualmente, come ho sperimentato, spesso è ben lontana dal verificarsi. Chissà! O i docenti di allora erano dei maghi oppure per l’oggi qualcosa non torna.


La maestra Gleise con una sua pluriclasse

La signora Augusta era una maestra nel contempo esigente e comprensiva, e soprattutto giusta, che teneva d’occhio sia la didattica sia l’insegnamento morale e civile. In un disegno fatto dai ragazzi di allora compare la scritta: “I voti sono uguali per tutti”. Tuttavia, se in classe c’erano bambini meno dotati, oltre a seguirli ed incoraggiarli, incitava di continuo i compagni ad aiutarli e trattarli bene anche fuori dalla scuola. Non era permesso in alcun modo schernire i più deboli. Proviamo a pensare a certi episodi di oggi!

Quando insegnava a S. Colombano di Exilles, aveva avuto in classe dei bambini orfani, che vivevano con la nonna: si trovavano in grande povertà e dovevano aiutarla nei lavori agricoli, in particolare nella vigna. La maestra li seguiva da vicino e lasciava correre, senza rimproverarli, se non avevano potuto svolgere i compiti. La nonna, pur nelle sue difficoltà, le donò, come segno di gratitudine, una bottiglia di vino. E in ogni modo questi ragazzi, una volta cresciuti, seppero ben inserirsi nel mondo del lavoro.

Uno dei principali problemi didattici della signora Gleise con i suoi allievi era il corretto apprendimento dell’italiano. Pur parlando normalmente il patois, ne aveva vietato l’uso in classe, per non distoglierli. Spesso, però, i ragazzi (e lei ne ricorda uno in particolare) finivano per adattare il dialetto all’italiano: ad es. il passato prossimo di finire diventava “ho iurato”, dal verbo locale “iurà” che significa appunto “terminare”.

La signora Augusta ricorda con piacere, ma anche con una vena di malinconia, il bel rapporto avuto con i suoi alunni, testimoniato dalle lettere di saluto che le scrivevano quelli di quinta alla fine del ciclo di studi, alcune delle quali davvero commoventi. Ed è stato bellissimo per lei ritrovarsi dopo cinquant’anni con gli ex-allievi del suo primo anno di docenza a Bardonecchia, nel 1955.


Ringrazio la signora Gleise e la prof.ssa Garibaldo per le informazioni fornite e l’amico Sandro Maggia per le fotografie e le cartoline d’epoca.


L'articolo è comparso a suo tempo sulla rivista "Panorami", di cui si ringraziano Direttore e Redazione per la gentile concessione.


 

Seguici su:

Seguici su Facebook Seguici su YouTube