Megalitismo

La Terra degli Uomini

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08 Marzo 2011


Isola di Hiva Oa: Oipona, l’enigmatico tiki Maki Taua Pepe

Navigando nell’immenso Oceano Pacifico, verso l’arcipelago più selvaggio: le isole Marchesi, culla di un’antica civiltà megalitica

La passione per la ricerca sul megalitismo ci ha portati a navigare anche verso terre remote.

“Te henua enana”, la Terra degli Uomini: così gli abitanti delle Marchesi chiamano ancora oggi le loro isole. Siamo in pieno Oceano Pacifico, all’estremo Nord della Polinesia francese: 15 isole di piccole dimensioni, di cui solo sei abitate e visitabili, per un totale di circa 4.000 abitanti.

Un pugno di terre emerse, nell’immensità del mare, a ricordo di quelle che, in epoche antidiluviane, erano ripide montagne: Polinesia sì, ma nulla a che vedere con le spiagge bianchissime degli atolli, il trasparente mare delle isole coralline, i resort lussuosi di grandi mete del turismo come Tahiti, Moorea, Bora Bora.

Tutto è più arcaico e più selvaggio nell’arcipelago delle Marchesi, tutto un po’ più avventuroso. Rarissime le strade asfaltate: per lo più percorsi sterrati tra le montagne e le foreste; tre piccoli aeroporti che permettono, da pochi anni, di raggiungere le isole maggiori con voli della compagnia aerea tahitiana da cui sbarcano poche decine di turisti a settimana; approvvigionamenti garantiti, ancora oggi, dal cargo che, via mare, tocca ogni isola non più di due volte al mese.

Comunque, te ne innamori. Superato lo sgomento iniziale delle piste fangose, dei nuvoloni scuri sempre pronti a rovesciare acquazzoni, dei nugoli di “nonò”, terribili moscerini punzecchianti, quello che si apre è un quadro straordinario.

La natura è di quelle mozzafiato: profonde baie, quasi dei fiordi, con un mare che va dal blu scuro a un incredibile viola, nere scogliere a dirupo e spiagge di sassi o di scura sabbia vulcanica; un territorio che, nell’arco di pochi chilometri, sale attraverso colline, altipiani e picchi montuosi fino a toccare i 1300 metri di altezza; una vegetazione dove le palme si mescolano ai pini e ti sembra di risalire al giurassico, tra orchidee rampicanti, felci altissime, enormi quantità di alberi da frutta; animali che ti suscitano il senso dell’insolito, come i cavalli allo stato brado (anche se sono d’importazione, fa un certo effetto vedere cavalli scorrazzare liberi tra le foreste), come i coloratissimi uccelli, come i galli selvatici che circolano liberamente per ogni dove portandosi appresso stuoli di galline e pulcini.

Insomma, un altro mondo, dove finisci per pensare che in certi angoli del Pianeta sarebbe ancora oggi possibile vivere semplicemente alzando una mano per cogliere frutti dagli alberi.


Isola di Nuku Hiva: bastioni megalitici di Kamuihei

Eppure, anche qui, è come essere a casa.

Sì, proprio in questa terra, remota e quasi primordiale, si può avere la percezione di dimensioni diverse della storia e dell’esistenza umana che si aprono davanti agli occhi come se ci si trovasse a Stonehenge o a Macchu Picchu, a Carnac o Rapa Nui.

Ed è proprio Rapa Nui (l’Isola di Pasqua) che, per così dire, ci ha guidati tra le isole del Pacifico: là infatti trovammo alcuni testi americani e inglesi che parlavano di archeologia oceanica.

A tutt’oggi, qui in Italia non se ne sa nulla: la cultura ufficiale ci passa l’immagine delle isole oceaniche come i classici angoli da cartolina e nessuno ha mai parlato delle loro ricchezze archeologiche. Ancor meno storici e archeologi hanno ipotizzato che queste tracce antichissime siano le stesse che una precisa cultura madre ha lasciato su tutto il Pianeta.

Quale stupore, infatti, di fronte alla scoperta che, nel folto delle giungle tropicali o nelle radure che giungono a toccare l’Oceano, si incontrano menhir e cerchi di pietre! E insieme, mura megalitiche che non hanno nulla da invidiare a quelle dell’area incaica o celtica, con le stesse architetture ciclopiche, gli stessi incastri perfetti di pietre enormi squadrate e fatte combaciare con inspiegata precisione, gli stessi perimetri di lastre erette come nel Nord Europa o a Portorico…

E poi ancora statue antropomorfe denominate tiki, che possono raggiungere i tre metri d’altezza e suscitano tanti ricordi: imponenti come i moai dell’Isola di Pasqua, hanno un enigmatico viso – simile più ad un anfibio che ad un uomo – che richiama quello delle statuette dogu del Giappone o delle sculture della remota Tiahuanaco andina e sono tutti scolpiti in posizione raccolta, con le mani in grembo o sulle ginocchia, in un gesto molto vicino ad una postura di meditazione.

Come non pensare che siamo di fronte a testimonianze di una leggendaria civiltà che si diffuse su tutto il Pianeta accomunando gli Uomini in una vera esperienza globale?

Nel sito di Kamuihei, sull’isola di Nuku Hiva (la più grande e centro amministrativo dell’arcipelago), ci siamo trovati di fronte ad un’autentica città megalitica, che richiama l’imponenza di mura come quelle peruviane di Cuzco e Sacsahuaman, quelle micronesiane di Nan Madol, quelle maltesi di Ggantija: bastioni ciclopici e piattaforme gigantesche che si inseguono addentrandosi fin nel folto della foresta, grandi spazi aperti recintati da gradoni di enormi massi, vere e proprie strade lastricate. E numerose coppelle, proprio quelle che ritroviamo identiche nella nostra Valle di Susa e ovunque nei siti megalitici del Pianeta.


I misteriosi graffiti di Tehueto

Sempre su Nuku Hiva, a Hikokua, perimetri di pietre erette identici a quelli che delimitano i templi di Rapa Nui, di Portorico e dell’intera area celtica europea.

Misteriosi graffiti di esseri tra uomo, ragno e anfibio a Tehueto, sull’isola di Hiva Oa, richiamano alle linee di Nazca e a incisioni rupestri di vari luoghi del Pianeta.

Il sito di Oipona, su Hiva Oa, conserva mura megalitiche che si susseguono in altezza, perdendosi nella foresta, e fanno pensare a quella che in origine doveva essere un’immensa collina terrazzata come i picchi di Macchu Picchu: tra le mura si elevano menhir e si ritrova la più impressionante serie di tiki di tutta la Polinesia.

Ai più importanti è stato dato un nome: Takaii, alto oltre tre metri, è il più grande tiki del Pacifico; Maki Taua Pepe è una straordinaria scultura: unico tiki conosciuto che sia in posizione coricata, ha un aspetto alieno e sembra più un essere volante che un umano; Fau Poe è alto circa un metro e ottanta, è accovacciato con le mani sulle ginocchia in una posizione meditativa ed è praticamente identico ad un’enigmatica statua rinvenuta su Rapa Nui (che si trova a circa 4.500 chilometri di mare).

Questi sono solo gli esempi più rilevanti di una ricchezza archeologica che si estende per ogni dove, su Nuku Hiva e Hiva Oa, le due isole Marchesi che abbiamo visitato: ci si domanda cosa può ancora riservare tutto il territorio che giace sotto la foresta vergine!

Fortunatamente si lavora parecchio per strappare nuove testimonianze alla terra e per conservare i siti in buone condizioni: c’è evidente rispetto per l’antica civiltà, anche se di questa pare non rimangano che leggende. La scienza ufficiale fa risalire le testimonianze archeologiche alla cultura che si sviluppò in loco negli ultimi due millenni, quando popoli marinari provenienti forse dall’Estremo Oriente colonizzarono, pian piano, tutte le terre emerse nel Pacifico.

Però questi popoli non hanno mai tramandato le conoscenze tecnologiche, di architettura e ingegneria indispensabili per erigere tali monumenti! E poi, come non notare che tali siti presentano testimonianze di un passato ancestrale dell’intera umanità, risalente all’alba dei tempi e ad un patrimonio comune a tutte le latitudini?

Popoli migratori possono aver ricolonizzato, in epoche successive, luoghi un tempo già ricchi di vita, incontrandovi strutture meravigliose che adattarono alle proprie esigenze riferendole, sempre e comunque, a qualcosa di grande e di sacro: ancora oggi, per i Marchesani, i tohua sono recinti di pietre usati per le pubbliche adunanze, i me’ae terrazze di pietra considerate luoghi sacri, le pae pae piattaforme di pietra usate a scopo rituale oltrechè abitativo.

E, dovunque, ritroviamo i tiki. Sono davvero singolari queste statue antropomorfe, diffuse in tutta la Polinesia.


Le coppelle del Tempio di Nuku Hiva

In generale, con il termine “tiki” nell’intera area oceanica si identifica qualcosa che ha a che vedere con il mana, il soffio vitale, lo spirito, la coscienza: il tiki è un’effige umana o umanoide che rappresenta un portatore di mana. Esistono numerose e suggestive leggende che riguardano il termine tiki.

Una di queste, di area pre-incaica, vuole che Kon Tiki fosse il capo di una tribù di pelle bianca installata in epoche remotissime presso il lago Titicaca, in Perù: spinta da offensive di popoli nemici, questa tribù si spostò verso Ovest, attraversò il Pacifico, giunse alle isole dell’attuale Polinesia – all’epoca disabitate – e qui si fermò per crearvi la propria nuova patria (leggenda che spinse il ricercatore norvegese Thor Heyerdaal a compiere le famose traversate oceaniche sul catamarano battezzato, per l’appunto, “Kon Tiki”). Il mitico Kon Tiki godeva dell’appellativo di Viracocha, con cui viene ricordata la mitica creatura che, all’alba dei tempi, portò la civiltà alle genti pre-incaiche: si tramanda fosse alto, barbuto, dai capelli biondi e dalla pelle chiara, mentre le popolazioni dell’area sud-americana sono solitamente di bassa statura, di pelle colorita e glabre: un bel mistero!

Così come un bel mistero è la chiara raffigurazione di un lama, scolpita nel basamento di un tiki ad Oipona: dei lama, in Polinesia, non c’è mai stata traccia!

La leggenda del popolo dalla pelle chiara apre vasti scenari: i miti polinesiani, infatti, ne riprendono il filo narrando di un essere primordiale ricordato come Tiki, figlio del Sole, che, venendo dal mare, giunse a portare la vita sulle isole del Pacifico.

I Maori, la più diffusa delle etnie polinesiane, conservano poi un altro mito suggestivo: la testimonianza di un essere, denominato Hei Tiki, che veniva dalle stelle, era piccolo, aveva piedi palmati e grandi occhi rotondi simili a quelli dei pesci o degli anfibi e fu “il primo Uomo”, maestro di tutte le cose.

Tutto lascia presupporre che qualcosa di stupefacente accadde, nel mondo degli antichi Polinesiani o in un mondo, magari più remoto, di cui essi conservarono notizia o esperienza.

E ancora oggi, nella vita dei Marchesani, il rapporto tra mondi e dimensioni diverse è vissuto in maniera semplice e naturale: se chiedi loro perché, da sempre, identificano nella tartaruga l’animale sacro per eccellenza, ti viene risposto: “Perché è l’unico essere che conosciamo in grado di andare e venire tra due mondi”.


 

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