Società

Epidemia socio-antropologica

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02 Aprile 2020
I cittadini di Tournai (Belgio) seppelliscono le vittime della peste nera.Miniatura di Pierart dou Tielt per il Tractatus quartus di Gilles li Muisit (Tournai, 1353 circa)
I cittadini di Tournai (Belgio) seppelliscono le vittime della peste nera. Miniatura di Pierart dou Tielt per il Tractatus quartus di Gilles li Muisit (Tournai, 1353 circa)

Un’analisi sociale che pone in evidenza l’incertezza che ancora oggi domina, a livello antropologico, la nostra relazione con l’epidemia


Le recenti vicende che hanno segnato il tessuto sociale italiano, ma non solo naturalmente, connesse all’epidemia del Coronavirus, hanno fatto riaffiorare schemi mentali e atteggiamenti irrazionali, che riflettono quelli visti nelle memorie giunte fino a noi dai “secoli bui”, in cui gli uomini furono travolti da epidemie e pandemie.

E in fondo non può essere che così: perché, al cospetto della malattia che si propaga senza freno, falcidiando trasversalmente tutte le categorie sociali, ci scopriamo deboli e destinati a essere un numero tra i tanti travolti dal morbo.

L’incertezza, che è anche figlia della non conoscenza, determina tutta una serie di azioni, spesso irrazionali, favorendo atteggiamenti in molti casi controproducenti. La paura, alimentata in primis dal dubbio, investendo le persone le induce a risposte reattive, soprattutto quando la posta in gioco è alta – o ritenuta tale – e in tal caso collassa la stabilità, determinando comportamenti che si allontanano dalla ragione.

Nel 1986, un maestro della storia economica, Carlo Cipolla (1922-2000), scrisse Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie nell'Italia del Rinascimento (2007), un libro sull’importanza dell’organizzazione e della razionalità nella lotta contro quel nemico che aveva la prerogativa di essere “invisibile”. Per la prima volta le battaglie non dovevano essere combattute di fronte a eserciti armati e belligeranti, ma comunque umani, bensì contro esseri forse ancora più devastanti dei combattenti in arme, famelici, seminatori di dolore e di morte, che si insinuavano cavalcando il nero destriero dell’Apocalisse, reso però invisibile da una strana alchimia tra soprannaturale e castigo divino.

Fa da snodo cardanico tra i terrori di ieri e quelli di oggi quell’aggettivo: invisibile. Infatti sta proprio nella non visibilità l’origine prima della paura. La mancanza di una fisicità apparente e proporzionata ai nostri mezzi di percezione naturali, innesca sgomento e disorientamento che, con effetto a valanga, aumentano di fase in fase, alimentati spesso dai miti che la paura produce.

È indicativo che medici e scienziati del passato – prima del microscopio – raffigurassero microorganismi, con caratteristiche fisiche correlabili alla tassonomia mitica e la loro mostruosità era direttamente proporzionale alla gravità delle patologiedi cui erano portatori: si trattava quasi sempre di esseri caratterizzati da ibridazioni tipiche della mitologia antica e medievale, frutto di un universo teratologico rimasto impigliato nell’immaginario.

Epidemia è un termine del latino medievale e deriva dell’unione di due parole greche: ἐπί (sopra) e δῆμος (popolo). Quando oggi sentiamo parlare della possibile diffusione del COVID-19, possiamo solo immaginare lontanamente cosa furono le grandi epidemie del passato, quando, alle limitate conoscenze delle patologie, si aggiungevano condizioni igienico-sanitarie adatte per favorire la propagazione.

Lo scrittore e antropologo Massimo Centini
Lo scrittore e antropologo Massimo Centini

In principio il riconoscimento di origini soprannaturali della malattia, ha alimentato una mitologia delle epidemie i cui strascichi sono giunti fino a noi: dalla peste di Atene (429 a.C.) all’Aids, passando per la “Spagnola” del 1918/19; abbiamo così modo di porre in rilievo che, davanti alla paura del contagio, gli uomini hanno reagito non solo con gli strumenti della scienza disponibili, ma anche con procedimenti e atteggiamenti dominati dall’irrazionalità e intersecati alla superstizione, pur senza smettere mai di individuare connessioni anche nella sfera della religione.

Fermo restando che qualunque discussione sull’annosa questione sulle epidemie deve essere effettuata da persone competenti su fonti scientifiche, certificate e indenni dalla adulazioni della pseudoscienza e da fake news, non dimentichiamo che la forsennata volontà di trovare un’origine “certa” dell’epidemia ha spesso indotto gli uomini a rivolgere il dito contro categorie marginali, considerate pericolose per la loro alterità e di fatto idonee per rivestire lo scomodo ruolo di capro espiatorio.

Le epidemie, senza dubbio hanno esercitato un peso non secondario nei cambiamenti culturali che hanno fatto seguito ai grandi contagi; emblematico il caso dell’impero romano che, pur dimostrando una notevole resistenza a numerosi fattori destabilizzanti, non riuscì a superare gli effetti collaterali delle epidemie: insomma più che i barbari poterono i germi…

La cultura, come via parallela alla medicina, può contribuire a esorcizzare le nostre paure sulle malattie prodotte dal contagio: certo non è un’operazione semplice, poiché alcuni miti sono profondamente radicati. Sappiamo che la storia della nostra lotta contro la malattia può essere narrata in due modi: come la storia dei progressi della specie, o come storia delle sconfitte degli individui. Sappiamo che, finora, la specie è stata salvata, pur avendo perso milioni di individui.

Davanti all’epidemia comprendiamo che la nostra specie è fragile: siamo stati messi alla prova a più riprese nel corso della nostra presenza sulla Terra, con effetti spesso devastanti, anche se la selezione degli individui meglio immunizzati ha consentito la continuazione della specie. Non bisogna però dimenticare che le nostre vittorie, sul piano evolutivo e su quello della lotta alle epidemie, sono vittorie precarie, temporanee, reversibili.

Oggi, l’unificazione di questo nostro pianeta ha reso velocissima l’aggressione delle patologie trasmissibili: dai tempi in cui la peste viaggiava con ratti e pulci celati nelle stive delle navi, siamo giunti a una rapidità di comunicazioni che sembrerebbe vanificare qualunque tentativo di contenimento. Occorre, non solo per le epidemie, mettere a fuoco strumenti in grado di porci con equilibrio al cospetto di un mondo profondamente cambiato, in cui i vertici raggiunti dalle comunicazioni forse ci hanno resi, paradossalmente, più fragili: e, ci sia concesso, forse più presuntuosi; al punto di perdere di vista gli aspetti reali, per chiuderci nelle nostre convinzioni arroccate intorno a luoghi comuni non sempre corretti. A ciò aggiungiamo che la presunzione alimenta l’egoismo, di cui abbiamo in questi giorni visto performance come l’incapacità di privarsi della movida, o le fughe irrazionali verso territori ritenuti “indenni” dai virus, con l’effetto di contribuire alla diffusione dell’influenza in quei luoghi.


LE GRANDI EPIDEMIE


429 a.C., peste di Atene

395 a.C, peste di “Diodoro”

126/127 a.C., peste “libica”

167/170, peste “antoniniana”

180, peste di Roma

252/267, peste di “Cipriano”

543, peste di Costantinopoli

1330-1351, peste nera

1485, epidemia di febbre in Inghilterra

1507, vaiolo del Centro America

1530-1545, morbillo del Messico

1617, vaiolo dell’America Nord-orientale

1640, febbre gialla a Haiti

1664/66, peste a Londra

1721-1722, vaiolo di Boston

1793, febbre gialla di Philadelphia

1817/23, pandemia di colera

1829/49, pandemia di colera

1847, pandemia di tifo

1863/79, pandemia di colera

1875, epidemia di morbillo nelle isole Fiji

1878, febbre gialla di Memphis

1881/96, pandemia di colera

1894, peste di Hong Kong

1894, peste di Bombay

1899/90, Influenza russa

1898/1923, pandemia di colera

1900/07, morbo Lumbe dell’Uganda

1910, epidemia di peste bubbonica in Manciuria

1914/1923, epidemia di tifo nell’Europa dell’Est

1918/19, pandemia di influenza (la “Spagnola”)

1947, epidemia di malaria in India

1957/1958, epidemia di “influenza asiatica”

1967, epidemia di vaiolo in Pakistan

1968/1969, influenza di Hong Kong.



Massimo Centini è laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Si è rivolto in più occasioni alla tradizione popolare, dedicandole ricerche e studi pubblicati con numerosi editori italiani (Mondadori, Rusconi, Newton & Compton, San Paolo, Accademia Vis Vitalis, YUME edizioni e altri). Ha insegnato Storia della criminologia al M.U.A. di Bolzano ed è docente di Antropologia culturale presso la Fondazione Università Popolare di Torino.