Tradizioni Celtiche

Il mistero del Bosco Sacro di Nemi

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26 Agosto 2013

Un dipinto di J.M.W. Turner del 1834 raffigurante il “Ramo d’Oro”, opera ispirata al paesaggio del bosco di Nemi

La leggenda dell’antico rituale del Re del Bosco praticato da tempi immemorabili sulle pendici del Lago di Nemi, sui Castelli Romani. Le sorprendenti similitudini con riti degli antichi Celti


Nemi è un paesino in provincia di Roma, posto sulle pendici dell’omonimo lago, nel cuore dei rinomati Castelli Romani. L’etimologia della parola “Nemi” rievoca stranamente lontane assonanze celtiche. La sua radice infatti è la stessa di “nemeton”, termine con cui gli antichi Celti esprimevano il concetto di bosco sacro e in senso più generale di luogo sacro.
La probabile matrice comune dei due termini ha ispirato una ricerca che ha rivelato una sorprendente ed enigmatica storia relativa a questi luoghi che ancora oggi sono pregni della magia degli eventi di cui sono stati teatro in un lontanissimo passato.
Il Lago di Nemi, con le sue caratteristiche acque cerulee incorniciate dalle verdeggianti pendici, è una tappa obbligata per chi è alla ricerca di un’atmosfera di silenzio e di luoghi misteriosi. La prorompente bellezza della natura in cui è immerso rende questo luogo immediatamente godibile a ogni visitatore, ma pochi sono a conoscenza del fatto che custodisce un arcaico mistero su cui non è stata ancora fatta definitivamente piena luce. Da un remoto passato fino all’alto Medioevo, tra gli impenetrabili boschi sulle pendici del lago si è protratto ininterrottamente un rituale segreto le cui antiche radici affondano nella cultura pagana e animista dell’età preromana.
Un’antica leggenda locale narra che la dea Diana Nemorensis amava riflettersi nelle acque del lago di Nemi, per questo motivo chiamato fino al secolo scorso “lo specchio di Diana”, sulla cui sponda settentrionale sorgeva un santuario a lei dedicato.


Veduta del lago di Nemi in provincia di Roma

Il culto di Diana risale a un’epoca imprecisata ma molto lontana, se si considera che Catone il Vecchio, uomo politico romano del III secolo a.C., afferma che il tempio a lei dedicato fu fondato anteriormente al 495 a.C., poiché egli era a conoscenza di fonti che lo citavano già a quell’epoca. L’origine e la natura di questa divinità sono avvolte da un alone di mistero; sono pochi gli elementi giunti a noi in grado di aiutarci a identificarne gli attributi.
All’interno dell’area del tempio dedicato a Diana furono rinvenute, insieme a frammenti di fiaccole, delle statuette bronzee che la raffigurano con una torcia impugnata nella mano destra. Questo ritrovamento fa dedurre che nel culto di Diana il fuoco avesse una importante funzione simbolica.
In suo onore il 13 agosto veniva infatti celebrata una Festa del Fuoco simile a quelle delle culture celtiche del Nord Europa che si svolgono in occasione dei Solstizi o di particolari ricorrenze celebrative dell’anno (Beltane, Samain, Lugnasad, fuochi quaresimali, ecc.); durante la cerimonia il boschetto si illuminava di una miriade di torce il cui bagliore si rifletteva fino nelle acque del lago, e questo gesto rituale veniva ripetuto a scopo evocativo da ogni famiglia in tutto il territorio italico.
Nel Santuario i devoti recavano offerte di candele e fiaccole e sembra che fossero presenti le vergini Vestali che custodivano il Fuoco Sacro. Del resto, l'appellativo di Vesta conferito alla Diana di Nemi, indica palesemente l'esistenza di un fuoco perennemente acceso nel santuario del bosco.

Nell’altro estremo della Via Sacra, a Roma, nel Foro, a conferma dell’importanza religiosa che il santuario rivestiva, fu edificato dal Re Servius Tullus un Tempio dedicato alla Dea Diana nel quale le Vestali custodivano il Sacro Fuoco perenne.
Questa divinità nel rappresentare la Dea dei Boschi sembrava simboleggiare anche la fecondità, la fertilità e l’abbondanza della Natura e la natività, attributi di solito riconducibili alla figura simbolica della Grande Dea Madre, culto universale celebrato dall’uomo già in età arcaica.


Frammento di sarcofago romano raffigurante il mito di Oreste (II sec. d.C.)

Il santuario pertanto era la meta del pellegrinaggio delle donne che cercavano la conquista della fertilità e coloro che venivano esaudite nella loro richiesta si recavano con una torcia accesa al santuario per sciogliere il voto.
Se sono pochi gli elementi a disposizione per risalire alla natura del culto di Diana, che quindi rimane ammantato di un fitto mistero, ancor più incerte sono le sue origini.
Tra gli studiosi e gli storici ci sono in merito diverse correnti di pensiero, alcune che indicano un’origine endemica del culto, quindi con una matrice riconducibile alla cultura delle popolazioni italiche dell’epoca; altre che individuano il culto di Diana come un fenomeno proveniente da lontano, approssimativamente dalla zona dell’attuale Crimea, esportato, secondo il mito, da Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, in fuga dalla sua patria avendo ucciso la madre per vendicare il padre.

Secondo il racconto epico Oreste, per sfuggire alla furia punitiva che il suo gesto aveva scatenato, fu consigliato da Apollo di recarsi nel paese dei Tauri, nella penisola di Crimea, e rubare l'antica statua di Artemide (Diana Taurica) per poi raggiungere un luogo ove scorreva un fiume formato da sette sorgenti, oggi identificato nel Tirreno meridionale; da qui successivamente risalì verso il Lazio.
Alcuni studiosi sostengono che il mito importato della Diana Taurica si sia sovrapposto a uno similare già presente in loco molto tempo prima. L’aspetto più sorprendente però, a proposito delle origini del culto di Diana, consiste nelle incredibili analogie che il rituale del re del Bosco, a esso strettamente correlato, manifesta, come vedremo più avanti, con i riti celtici e delle culture del nord Europa.


Veduta del bosco ove si svolgeva il rituale del re nemorense. Sono visibili le rovine del santuario di età romana

La cultura romana, secondo un costume che la caratterizzò per tutta la sua lunga durata, edificò su quel luogo, di cui evidentemente riconosceva la sacralità, un tempio maestoso eretto su almeno tre livelli terrazzati, dando così a modo suo continuità a un antico culto popolare, assorbendone e modificandone i caratteri principali. Questo luogo comunque rivestì per i Romani un ruolo molto importante dal punto di vista religioso, a tal punto che la Via Sacra, l'arteria principale del Foro Romano, teatro delle processioni d'inizio anno, feste sacre e trionfi, punta dritta proprio al Bosco di Nemi.
Purtroppo di questo luogo magico oggi rimangono solo frammentarie e pressoché inaccessibili rovine riportate in luce durante una campagna di scavi nel 1871 che, come spesso accade per le testimonianze archeologiche che rivelano le radici di una “scomoda” realtà pagana, versano in uno stato di totale abbandono. Un processo di degrado iniziato con l’ufficializzazione del cristianesimo che decretò il progressivo declino del culto di Diana fino al suo totale oblio.
Tuttavia è ancora visibile l’ara su cui veniva celebrato il culto di Diana che dovrebbe corrispondere al luogo dove da secoli e secoli veniva praticato il rituale del Re del Bosco. Narra la leggenda che questo paesaggio agreste era teatro di una misteriosa e ricorrente vicenda: nel bosco sacro (in prossimità del punto dove oggi risiede l’altare romano) cresceva isolato un albero particolare, molto probabilmente una quercia, nei pressi del quale a qualsiasi ora del giorno e della notte era possibile vedere una figura che guardinga e fiera impugnava una spada nella mano destra. Si guardava da un agguato che un nemico avrebbe potuto tendergli cogliendolo all’improvviso con l’intenzione di ucciderlo mediante un colpo inferto con un ramo spezzato dall’albero sacro. La figura che si aggirava circospetta era un sacerdote e un re allo stesso tempo: il re-sacerdote del bosco sacro.
Se il misfatto fosse avvenuto, lo sfidante, che la leggenda vuole fosse uno schiavo fuggiasco, sarebbe succeduto al suo trono, finché a sua volta non avesse subito la stessa sorte, alimentando il ciclo e garantendo la continuità di un’antichissima tradizione.
La strana regola di questo sacerdozio non trova immediate corrispondenze e spiegazioni nella mitologia classica. Per avventurarci allora in una possibile interpretazione bisogna addentrarsi nel terreno della mitologia arcaica legata alla concezione animistica dell’esistenza e al rapporto mistico con la Natura.

In occasione degli scavi archeologici che riportarono in luce le rovine del tempio di Diana furono rinvenuti anche resti di un santuario molto più antico, risalente almeno all’età del Bronzo, di forma circolare. Appare quindi chiaro che sulle sponde del Lago di Nemi si tramandavano da tempi immemorabili culti a scopo magico-religioso probabilmente legati alla Natura.


L’arco di Artemide, la versione greca di Diana. Frammento di affresco romano. L’arco che tiene in mano è in realtà una ruota forata, un antichissimo simbolo celtico e di tutte le culture dei popoli naturali

Ed è proprio approfondendo gli elementi del rituale del Re del Bosco che ci sono pervenuti dagli autori classici elementi che mostrano le stranissime assonanze con il mondo cultuale degli antichi Celti. Nella mitologia celtica la dea Dana o Danu, madre di tutti gli dei, viene descritta con gli stessi attributi di Diana e questa analogia potrebbe essere molto indicativa della sua natura.
La funzione simbolica del re-sacerdote di Nemi era probabilmente quella di dare vita alle proprietà feconde della dea Diana accoppiandosi con lei nel giorno del Solstizio d’Inverno all’interno del bosco sacro. Il successo dell’unione era considerato dal popolo come segno di buon auspicio per l’anno a venire, mentre il suo fallimento, segno di sventura, decretava di fatto la fine del re e la necessità di trovare immediatamente un suo successore poiché egli rivelava di non essere più in grado di assicurare alla sua gente protezione e fecondità.
Il "rex nemorensis" presiedeva simbolicamente al ciclo infinito della morte e rigenerazione della vita, del continuo mutamento della natura che si trasforma e rinnova con l’alternarsi delle stagioni. Incarnava quindi il ruolo di rappresentante mortale del Dio della vegetazione e in virtù di questa funzione s’accoppiava con la sacerdotessa di Diana, capo della comunità e icona della Dea della vita, per garantire la prosperità di ogni forma di vita, vegetale e animale; poi veniva simbolicamente ucciso per interpretare la fine del ciclo che si preparava a rinnovarsi con la rinascita.
Il rinnovamento del sacerdozio era pertanto un segno della continuità di un’antica tradizione.

Gli altri elementi-chiave del culto di Nemi non sono meno sorprendenti della figura del re del bosco; prendiamo ad esempio la funzione della quercia, che era l’albero centrale intorno a cui si celebrava il rito e da cui lo sfidante e aspirante re doveva procurarsi il ramo con cui affrontare il sacerdote in carica. Questa pianta riveste un ruolo di sacralità in moltissime culture, soprattutto presso gli antichi Celti. I riti ispirati alla natura erano officiati dai loro sciamani, i Druidi, presso radure ricavate all’interno di un querceto che svolgeva quindi la funzione di tempio naturale.


Un’antica stampa raffigurante la dea Diana. Da notare la presenza del cervo, un altro elemento simbolico molto ricorrente nella cultura celtica

Per le genti che praticavano il culto di Diana il re nemorense incarnava lo spirito arboreo della quercia, quasi in una visione animistica dell’esistenza, e come abbiamo visto gli affidavano le sorti della loro vita quotidiana.
Anche i Romani, che conducevano una politica di assimilazione degli elementi culturali dei popoli che conquistavano, ritenevano sacro questo albero e non a caso il sacro fuoco delle Vestali che ardeva nel tempio di Vesta era alimentato con legno di quercia.
Ma perché la quercia era ritenuta così importante dal punto di vista spirituale? I popoli celtici le attribuivano forza, saggezza, giustizia e soprattutto ritenevano che fosse fonte di conoscenza, considerandola la “madre dei Druidi”. I luoghi sacri in cui si erigeva diventavano i punti magici di contatto con gli antenati e soprattutto con la dimensione trascendente dell’invisibile.
Al simbolismo della pianta sacra è collegato in modo molto stretto quello della sua pianta parassita, il vischio, tutt’oggi molto ricorrente nelle festività natalizie, come elemento portatore di buon auspicio. Antichi miti celtici, come quello del dio Baldr, rivelano come il vischio venisse considerato un dono ancora più sacro della quercia stessa che lo ospita.
Le leggende celtiche attribuivano al vischio poteri straordinari perché ritenuto di natura divina. La quercia su cui cresceva diventava perciò un albero particolare, scelto dagli dèi; crescendo sui rami più alti della pianta, rappresentava il naturale e simbolico collegamento tra il cielo e le radici, la terra. Per via di questa natura divina si racconta che venisse raccolto al sesto giorno del ciclo lunare seguendo un preciso rituale, per mezzo di un falcetto d’oro, per preservarne simbolicamente il potere del contatto con la terra e poi avvolto in un panno bianco.
La caratteristica del vischio di crescere d’inverno, quando la quercia va in letargo e tutta la natura si assopisce, sembra donargli una sorta di immortalità, rafforzando l’alone di magia che lo riveste.

Il vischio era pertanto considerato dal credo popolare l’anima o l’essenza della quercia stessa.
Nel mito del re nemorense si ritiene che l’arma con cui l’aspirante re affronta quello ancora in carica fosse un ramo della quercia sacra, ma è molto probabile che si tratti di un elemento puramente simbolico; alcune interpretazioni del culto infatti descrivono questo ramo come un ramoscello di vischio.


Il Tempio di Vesta al Foro Romano da cui parte la via sacra verso il lago di Nemi

In mitologia si ritrova il concetto di “ramo d’oro”, visto come un elemento di supporto, uno strumento per affrontare e risolvere imprese difficili e viene identificato nel vischio in virtù del colore aureo che assume quando si secca e in molte culture tradizionali gli venivano attribuiti caratteri solari. La pianta parassita della quercia era associata alle proprietà del metallo nobile poiché, secondo antiche leggende nordeuropee, aveva il dono di far scoprire l’oro o genericamente un tesoro a chi lo possedeva.
Se si propende per l’aspetto simbolico del culto del bosco di Nemi, il ramo d’oro potrebbe allora avere tutt’altra funzione e rappresentare lo strumento con cui poter affrontare un percorso indirizzato verso la scoperta di un tesoro di altra natura... forse una ricchezza interiore, spirituale?
A sostegno di questa chiave interpretativa si può citare Virgilio che nell’Eneide menziona il ramo d’oro descrivendolo coma la fronda che Enea, su consiglio della Sibilla, colse prima di addentrarsi nell’insidioso viaggio nel mondo dei morti. È lo strumento con cui egli si fa luce nell’oltretomba e il lasciapassare che gli permette di traghettare il fiume che divide il mondo visibile da quello invisibile.
Dalla cultura celtica ci perviene un ulteriore elemento per provare a interpretare il misterioso significato del ramo d’oro del sacerdozio di Nemi, nello specifico dagli interpreti della sua tradizione poetica, i “Filid”. Il “ramo musicale” che portavano con sé aveva la funzione di insegna sciamanica e, a seconda del livello spirituale raggiunto, poteva essere d’oro, d’argento o di rame.
In questa tradizione il ramo d’oro era associato al ramo ultraterreno, simbolo della vitalità della tradizione poetica che si rinnova nella sua trasmissione da maestro ad allievo.
Lo studio del culto del re del bosco a Nemi ha quindi rivelato i molti punti in comune che stranamente esistono tra questo rito e la tradizione celtica; rimane ora da risolvere il mistero di come un elemento culturale tipicamente celtico sia potuto giungere e sopravvivere così a lungo in una nascosta località laziale.
Un indizio molto curioso ma estremamente significativo a tal proposito può essere rappresentato dal ritrovamento, avvenuto non molto tempo fa sotto il livello della banchina del lago, di una struttura muraria a forma poligonale tipica della cosiddetta seconda maniera dell’architettura delle mura megalitiche laziali. Di per sé questo elemento potrebbe sembrare insignificante o non pertinente con la relazione tra celtismo e culto di Nemi, in realtà costituisce una prova della presenza nel territorio in questione della cultura appartenuta al mitico popolo dei Pelasgi. Costoro furono infatti gli inventori dell’architettura muraria megalitica e sono ritenuti da ormai quasi tutti gli studiosi i lontani progenitori dei Celti.


Un particolare del tempio romano dedicato a Diana. Si intravede sullo sfondo l’altare

I Pelasgi hanno le loro radici nel bacino del Mar Nero e secondo alcuni autori provenivano addirittura da molto più a nord, dalla zona compresa tra il Mare Artico e gli Urali. È ormai storicamente accertato che dovettero affrontare diverse migrazioni in seguito a cataclismi naturali che li portarono, a partire dal 3000 a.C., a spostarsi lungo varie direttrici, una delle quali li fa approdare nel Tirreno e poi risalire all’interno verso il Lazio e l’Italia centrale.
Questo percorso ricorda le vicende mitologiche compiute da Oreste, a sostegno della possibilità che gli elementi che si possono definire genericamente celtici possano provenire dalla cultura pelasgica stanziatasi nel territorio laziale a partire dalla fine dell’Età del Bronzo. È d’altronde ormai quasi universalmente riconosciuta in quel periodo l’attestazione in tutta l’Italia centrale di una cultura che presentava caratteri riconducibili al celtismo.
A conclusione di questo percorso si possono così delineare due possibili chiavi interpretative del rituale del re del bosco: una, di carattere antropologico basata sulla arcaica concezione animistica dell’uomo, indica nel culto di Nemi la celebrazione di una divinità che incarna lo spirito arboreo della quercia, albero sacro, in grado di assicurare con il suo potere solare fertilità e protezione; l’altra, di natura magico-iniziatica, intravede la possibilità che nel bosco venisse celebrato un rituale in cui l’aspirante sacerdote fosse introdotto ad un culto dai caratteri sciamanici, probabilmente legati alla grande Dea Madre.
Come in tutti i riti iniziatici la morte ha una funzione simbolica ed è sempre accostata al concetto di rinascita. Nel nostro caso il candidato sacerdote, al pari di ciò che fece Enea, affronta l’inizio di un cammino spirituale alla luce del ramo d’oro, proveniente dall’albero sacro della tradizione.
In entrambe le ipotesi non si hanno comunque elementi inconfutabili per una spiegazione esaustiva del fenomeno ma soltanto fonti mitologiche e leggendarie, sostenute tuttavia da alcuni ritrovamenti archeologici.
Il patrimonio della cultura popolare, però, sappiamo bene essere degno di particolare attenzione perché costituisce spesso una fonte preziosa da interpretare per estrapolare dati che possono rivelarsi aderenti alla realtà. L’unica conclusione certa è che in questo luogo silvestre è stata tramandata e vivificata una antichissima tradizione ricca di simbolismi magici, che ha reso Nemi un posto carico di un fascino tangibile. ll segreto che si è celato per secoli in queste pendici sacre rimarrà probabilmente custodito per sempre in quei fitti boschi, ma ciò che si può comunque percepire immediatamente è la sua eterna sacralità.

 

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