Il blog di Guido Barosio

Grazie Gipo, anima della Città

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28 Marzo 2014


Se n’è andato alla fine dello scorso anno. In punta di piedi, dopo 50 anni di storie, canzoni, avventure, risate, emozioni; personaggio unico e picaresco. Ricordato – con amore commosso – per qualche giorno. Ma, dopo poche settimane, la velocità di un ‘tempo irrispettoso’ ha sembrato cancellarne il ricordo se non la memoria. Ma chi l’ha conosciuto, chi – come me – è cresciuto con le sue canzoni, non dimenticherà mai. Comprendere Gipo è come comprendere Torino. Realtà inconfondibili, anomale, uniche, umorali, nobili e plebee. Gipo Farassino non è – e io amo esprimermi al presente, perché i miti non hanno mai una conclusione anagrafica… - un cantante (o attore) dialettale, come la sua città non è una cosa sola.

Torino è ‘differente’: ‘industriale’ e bottegaia (nel senso più ricercato del termine), capitale (o ex capitale) dell’auto e capitale (o ex capitale) d’Italia, popolare e stravagante, aristocratica e (persino troppo) sottotraccia nelle sue manifestazioni d’orgoglio sempre ben motivate, nobile e stropicciata, la città più francese d’Italia e la più italiana di Francia, amante dei suoi re (i Savoia come gli Agnelli) ma sarcastica (perfida? ingrata?) nel momento di giudicarli, splendida nel suo Barocco ‘purissimo’ e ingrigita dalla sua periferia, città ‘di ringhiera’ e di scaloni aulici, Palazzo Madama e ‘Via Cuni’, la Juve e il Toro, il Museo Egizio e Lungo Dora Napoli, la Mole - che è ebraica di concezione ma svetta come un tempio orientale senza uguali in Europa – ed i viali disegnati con la squadra, la prima città al mondo a brevettare gli orinatoi (detti ‘pisur’) e l’unica ad offrire acque alpine dai ‘turet’, coi piccioni che resistono all’arrivo dei gabbiani, coi piemontesi che hanno accolto/odiato/amato veneti e pugliesi, calabresi e napoletani, rumeni e albanesi, magrebini e senegalesi. 

Tutti questi elementi, queste identità, in continua evoluzione e in perenne contrasto sotto il medesimo cielo: grigio come un panno sporco quando piove, celeste a incorniciare le sue montagne appena Eolo soffia via le nuvole. Gipo è nato qui e non poteva essere un ‘grande interprete nel suo dialetto’ e basta. Lui – il top di gamma di sempre in questa nostra terra – è unico nel suo leggere/cantare/interpretare i cortili, le meraviglie e l’umanità di un posto che non assomiglia – come Gipo stesso – a nessun altro. Poi Torino è Porta Pila: il più grande mercato del mondo sul mare col mare a 130 chilometri di distanza. Porta Pila è ‘portuale’ per elezione: un luogo di sbarco dove tutti i nuovi torinesi hanno portato se stessi e le proprie mercanzie senza pudore e senza spavento, un territorio franco e affrancato dove commerciare, parlare la propria lingua, incominciare a parlare quella degli altri, affermarsi nella propria identità aprendosi (a volte con mille difficoltà) alle altre identità giunte sul medesimo selciato, tra banchi e voci, tra verdure e rumenta. Gipo amava Porta Pila e ci ha salutato – forse con in mente ancora uno spettacolo, ancora una canzone – a poche centinaia di metri da Porta Pila: in quella casa di via Della Consolata che si affaccia sulla chiesa più amata dai torinesi. La stessa casa dove abito io – ‘my home’ come dicono gli americani quando un posto ti appartiene, e non ‘house’ che è solo l’edificio coi suoi 4 muri… – e dove ho avuto il privilegio di averlo come ‘vicino’. Sempre con la battuta pronta, col sigaro (più spento che acceso) tra le labbra, col suo passo da guascone che dominava lo spazio, tipico degli uomini che sanno sempre dove vogliono andare… Gipo era trasversale perché la sua musica – affondata nel meglio dello swing e della tradizione degli chansonnier francesi – sfuggiva ad ogni etichetta: ringhiosa, commovente, senza tempo, sempre nuova, mai banale, odorava di Marsiglia, Parigi e New Orleans senza allontanarsi dal Songone, il suo ‘Sangon Blues’… A dodici anni sono andato per la prima volta a teatro e c’era lui; per me – e per tanti ragazzi della mia generazione – era il debutto tra le poltrone di velluto di una sala vera. Per me – e certo non solo per me – era ascoltare ‘qualcuno di noi’: un parente? Uno zio irriverente che ‘mostrava i muscoli’ e la risata, uno che la sapeva lunga... Per questo Gipo è nostro: nei tinelli degli anni settanta si ripetevano le battute dei suoi monologhi, si tentava – senza estro e tanta buona volontà – di riproporre qualche brano della sera precedente. Canzoni che forse ti rimanevano in testa perché non erano figlie di una ‘musica qualunque’: Porta Pila era Aznavour, in altre si affacciava un blues che ancora non conoscevamo, lo swing ti faceva tenere il ritmo, altro che folk, altro che nenie cullanti da colline campagnole, Gipo era contemporaneo, era internazionale, era la nostra star che – inconsapevolmente – avrebbe segnato la genesi di un sound torinese ancora lontano dal manifestarsi. Ci sono cose che non sempre vanno condivise. Ma ovunque vai, se sei torinese anche se parli mantovano o calabrese, arabo o swahili, Lui ti farà sorridere, ricordare, intonare un ritmo; una parola, un nome, che ti ricorderà da dove vieni. Una città dove c’è un porto senza che ci sia un mare, una città dove la Francia è dietro l’angolo, un luogo di ciminiere, biciclette e re imparruccati, un posto non sempre facile da amare ma pieno di storie, di sorrisi esposti ai ballatoi, di montagne a portata di mano, che non era semplice cantare e raccontare. Gipo ci è riuscito, con un sigaro più spento che acceso, col passo da guascone, con un gusto per l’avventura tutto suo, con fiumi che non erano il Mississipi e la Senna ma si facevano amare attraverso note memorabili. E una voce unica, potente, dal timbro inconfondibile, memorabile per chi sa individuare Porta Pila come la propria Croce del Sud.



 

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