Leggende e Tradizioni

La lingua ancestrale - 2

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15 Giugno 2015

Giovani aborigeni australiani


Tutte le lingue storiche posseggono un patrimonio lessicale ricco di termini specifici, tanto per il mondo materiale, quanto per quello spirituale. Non esistono lingue superiori o lingue inferiori, proprio come non esistono popoli superiori o popoli inferiori: tutti hanno dovuto fare i conti con la lotta per la sopravvivenza, tutti hanno fatto la loro cavalcata attraverso i secoli, tutti si sono dotati di una religione e di una mitologia, tutti hanno avuto cantori e musici, tutti hanno avuto poemi epici, fiabe, proverbi, miti. In questo senso l’autore-cantore dell’Iliade non è né superiore, né inferiore agli autori-cantori celtici, islandesi, bosniaci, paleoslavi, amerindiani. Vero, mentre per il greco è possibile ricostruire nei minimi dettagli tutto questo mondo dello spirito e della creazione letteraria grazie alla sua copiosa letteratura, per altre lingue ciò non è più possibile, perché non sussistono fonti scritte. Ma questo non vuol dire che quelle lingue non hanno mai posseduto i termini necessari all’epos: semplicemente non hanno avuto un Omero locale e sono andate perdute per sempre.

Secondo, perché “lingua ancestrale”, come sinonimo di lingua non più aggiornabile, è un concetto errato (la cosiddettà sindrome di Heidi), non solo se riferito al periodo anteriore all’avvento di una cultura dominante esterna, ma anche quando riferito al periodo successivo all’arrivo di una cultura dominante. Non perché io dico “ancestrale” ammetto implicitamente che si tratta di una lingua che non può più essere aggiornata: al contrario, “ancestrale” è una forte asserzione di identità che – date le circostanze opportune – può portare ad un rinnovamento senza perdita di specificità. L’ancestralità è la migliore garanzia che è possibile evolversi rimanendo sé stessi.

La convinzione che la lingua ancestrale non possa essere aggiornata è più spesso radicata in coloro i cui antenati parlavano quella lingua che non in coloro che da generazioni parlano oramai solo più la lingua “vera”. A questo si assomma la convinzione che parlare una lingua ancestrale sia denigrante ed emarginante. Da qui la fretta degli immigranti di adottare il più rapidamente possibile la lingua della nuova patria: la lingua vecchia era il gergaccio dell’ignominia e della povertà, la nuova quella del rispetto e della prosperità. 


Ragazzi Apache dopo esser stati tolti alle loro famiglie e trasferiti in scuole gestite dai bianchi. USA, XIX secolo

E, sempre per lo stesso motivo, chi parlava un “dialetto” in Italia si affrettava ad improvvisarsi locutore competente di italiano per insegnare solo quest’ultima lingua ai figli o ai nipotini. Si celava, e tuttora si sottace, il proprio passato linguistico con la stessa premurosa verecondia con cui si obliterano i propri trascorsi come squadristi o come brigatisti.

Quanti romanzi sono stati scritti in Italia, da Giovanni Verga a Gavino Ledda, da Augusto Monti a Elio Vittorini, da Cesare Pavese a Carlo Sgorlon, dove palesemente si percepisce una lingua regionale nascosta dietro ad ogni parola dei loro personaggi, artificiosamente italofoni? La verità è che non si è mai trovata la quadra tra dialettofonia e italofonia nella letteratura italiana moderna e che i personaggi appaiono sempre linguisticamente meno che spontanei (a differenza di quanto avviene invece nella letteratura americana – Steinbeck –, in quella franco-canadese – Gabrielle Roy –, in quella russa – Michail Sholokhov –, in quella sudamericana – Gabriel Garzìa Márquez –, in quella francese – Ferdinand Céline, etc.).

Il problema non è solo linguistico, ma anche culturale e socio-politico: costituzionalmente il popolo detiene il potere, linguisticamente no. È per questo che in Italia potevano permettersi il dialetto o coloro che erano davvero completamente analfabeti (e dunque al di là di ogni sospetto e di ogni considerazione), o l’aristocrazia, quella che amava ridere del popolo, ma anche di sé stessa: non per nulla la produzione di grandi poeti come l’Isler, il Brofferio, il Belli o il Di Giacomo, pur essendo in lingua del popolo, era destinata soprattutto all’utenza del ceto superiore, quello che sapeva leggere e fruire, e solo di rimando a quello inferiore, che sapeva solo ascoltare e ridere. I ceti che ambivano alla scalata, per amor di rispettabilità, finirono col parlare solo più italiano. O, perlomeno, quello che tentavano di far passare per italiano. Ma Sur Lisander, che scriveva al ministro della cultura Emilio Broglio che bisognava fiorentinizzare gli italiani, a casa propria parlava proprio solo in meneghino.

Se al giorno d’oggi, nonostante le sempre più autorevoli conferme della validità della lingua ancestrale come trampolino di lancio verso il multilinguismo e per la formazione linguistica dei giovani discenti, continua la pervicace resistenza alla conservazione e allo studio del “dialetto”, ciò non è solo dovuto all’ignoranza del valore del patrimonio linguistico ancestrale, ma anche ad un radicato ed obsoleto sentimento dell’inaccettabilità della cultura popolare come parte integrante e vitalizzante della concrezione linguistico-culturale di tutta la nazione.


Una scuola di lingua e cultura occitana

La prima cosa e la più importante nella difesa delle lingue ancestrali non è il loro insegnamento o la loro codificazione, ma il ripristino dell’orgoglio dei popoli che ancora le parlano: riuscire a far capire loro che parlare moicano, algonchino, cri, walsertitzschu, provenzale, piemontese, sardo non è un disonore, non è palesarsi membri di una sottocultura, non è parlare la lingua dei vecchi e dell’isolamento, ma è riappropriarsi di mille anni di vita e di storia, il che equivale a far sopravvivere il retaggio più prezioso dell’umanità nelle sue 7.000 lingue ancestrali.

Pertanto non occorre solo fare tutto il possibile per continuare a parlare queste lingue, ma anche convincere i popoli che è dignitoso e doveroso continuare a parlarle, accanto a quelle poche che ci servono per comunicare con i 7 miliardi di esseri umani su questa terra. Imparare le lingue planetarie è non meno doveroso che conservare quelle ancestrali.

“Lingua ancestrale” vuole anche dire un forte stimolo neurologico per i bambini che, oltre ad assimilare un’altra lingua, si predispongono alla rapida acquisizione di altre lingue e al dialogo con il resto dell’umanità.

Soprattutto rispetto delle altre lingue e delle altre culture, per piccole e minori che esse siano.

Non è necessario rinunciare alla propria lingua ancestrale per imparare l’italiano o l’inglese o il cinese. È vero il contrario, se soltanto in casa e a scuola vi fosse chi conosce a fondo le lingue che predispongono al multilinguismo imperniato sulla lingua ancestrale. È davvero triste vedere nascere e crescere al giorno d’oggi una generazione di giovani che “parlocchia” le lingue del mondo, ma non possiede più veramente una lingua identitaria propria. È forse questa una delle ragioni della caduta dei lessici di frequenza giovanili alle soglie dell’afasia?

Da dove cominciare il nostro lavoro, come impostare il nostro operato, a chi rivolgerci quando i dirigenti politici hanno nei confronti della cultura linguistica la stessa sensibilità che un gorilla avrebbe per uno Stradivari?

Cominciamo subito con lo sfatare un mito, che il bambino che impara in casa, nella cerchia familiare, una lingua ancestrale, dopo non può più imparare bene la lingua nazionale. Si ritiene che i loro piccoli cervelli ne saranno confusi, la loro pronuncia sarà una mescolanza di suoni del “dialetto” e della “lingua”, che anche il lessico e la sintassi ne soffriranno.

Non c’è nessuna giustificazione per questi timori. È vero anzi il contrario.

Vi sono tre stadi di assunzione linguistica nella vita di un bambino che cresce in un ambiente bilingue o multilingue: Il piccino si crea dei repertori mnemonici di parole proprio come fanno anche i bambini monolingui. Di solito l’ambiente familiare utilizza parole che non ricorrono in quello della scuola pre-elementare e dunque le parole nell’elenco del bimbo bilingue o multilingue non hanno equivalenti veri tra lingua domestica e lingua foranea.


Allievi Inuit

Questo fa sì che il bilinguismo nei primi due anni di vita stimoli molto di più la corteccia cerebrale e i neuroni che, come si sa, rimangono attivi solo se stimolati nei primi due anni di vita, altrimenti si spengono letteralmente.

Questa accresciuta vitalità neuronale avvantaggerà il bimbo poliglotta non solo nell’apprendimento di altre lingue, ma in tutte le attività intellettuali, incluse quelle scientifiche.

Sempre nei primi due anni di vita il bimbo in un ambiente multilingue può incominciare a parlare con un ritardo che va da alcuni mesi fino ad un anno. Quando inizia a parlare, nonostante il fatto che un genitore (od un parente) gli abbia sempre e solo parlato la stessa lingua, e l’altro nell’altra lingua, presenta fenomeni di commistione lessicale, che dal 35% nel terzo anno calano rapidamente al 5% nel quarto anno.

Dal quarto al sesto anno il bimbo sviluppa la capacità di distinguere tra la grammatica e la sintassi di una lingua e quelle delle altre lingue, mentre perfeziona la capacità di interpretare simultaneamente, nella propria mente, tra l’una e l’altra delle lingue che utilizza a casa, all’asilo e nel gioco con i coetanei. All’inizio della scuola elementare il bimbo bi- o multilingue possiede un lessico di frequenza in ciascuna delle sue lingue che è superiore a quello dei suoi coetanei, e ciò per via dei continui travasi da una lingua e all’altra, che lo stimolano a chiedersi come si dice quella tal cosa nelle altre lingue, magari una cosa che non menzionerebbe se non ne fosse indotto dalla gamma di parole di una delle altre lingue che impara.

Naturalmente tutto ciò funziona bene a tre condizioni: chi parla al bimbo deve godere della sua fiducia e del suo affetto; chi parla una determinata lingua al bimbo deve usare sempre e solo quella lingua (no role switching); l’ambiente familiare o scolastico non deve mai colpevolizzare il bimbo facendogli credere che una delle lingue che impara è una lingua ignobile, inferiore, o una lingua che gli porta lo sprezzo o l’isolamento da parte dei compagni o degli insegnanti.

In Italia – non si è mai capito bene perché – i bimbi toscani sono incoraggiati dovunque, a casa come a scuola, ad utilizzare il proprio dialetto (questa volta sì che si tratta di un dialetto, cioè di una variante del toscano), mentre i bimbi delle altre regioni – quei pochi che ancora imparano una lingua locale in casa – vengono scoraggiati dal parlare la loro lingua ancestrale. Dal punto di vista linguistico i danni che ne conseguono da tali inibizioni sono ingenti, senza contare lo iato generazionale che si instaura tra nonni e nipotini. Si è soliti dire che i toscani parlano meglio l’italiano. É errato. I toscani parlano meglio il toscano, cioè il loro dialetto. Che poi questo loro dialetto sia molto più vicino all’italiano standard che non, ad esempio, la lingua piemontese o la lingua sarda, è un fatto, ma se tutti i bambini d’Italia fossero incoraggiati, nei limiti del possibile, a parlare le loro rispettive lingue ancestrali non ci vuole molto a capire che poi trasferirebbero la spontaneità e l’idiomaticità della loro lingua madre anche alle altre lingue via via apprese, incluso l’italiano.


Una famiglia Ladina

Ecco le azioni da intraprendere to reverse the trend, per invertire la tendenza all’estinzione delle lingue ancestrali: fornire agli insegnanti di lingua la formazione di base nella lingua ancestrale con corsi basilari di competenza linguistica, di fonologia/morfologia e di pedagogia (metodi e tattiche didattiche); non lasciarsi scoraggiare dalla presenza di tante varianti nelle lingue polinomiche, utilizzando quella che è parlata localmente; incoraggiare la stesura di manuali d’insegnamento, di glossari, di grammatiche, di dizionari, di traduzioni e adattamenti testuali, di antologie e di quanto necessario all’insegnamento e all’illustrazione della lingua; cercare di utilizzare, fosse anche per poche ore settimanali o per mezza colonna, la lingua ancestrale in programmi radio-televisivi o in giornali locali; facilitare con traduzioni gratuite l’affissione di insegne di commerci o di annunci in vetrine, su strada, in locali pubblici di cartelli, annunci, avvisi, etc., nella lingua locale (oltre che in altre lingue); promuovere, tramite conferenze e incontri in scuole, comunità e associazioni culturali, festival e raduni, l’uso della lingua locale, l’orgoglio e la coscienza/conoscenza della propria ancestralità; insegnare agli anziani e agli informatori linguistici a scrivere correttamente la lingua locale; favorire il dialogo intergenerazionale, anche in ambito scolastico, per avvicinare gli anziani custodi della lingua ai giovani che la imparano; sostenere la formazione di collezioni di libri in lingua ancestrale presso le biblioteche locali; -incentivare con ogni mezzo la circolazione di materiali (libri, poesie, recite teatrali, dischi, programmi, ecc.) per via telematica, soprattutto se di valore letterario, culturale o artistico; incoraggiare le rappresentazioni teatrali, che sono uno dei mezzi più efficaci per diffondere la conoscenza e l’amore per la lingua ancestrale, anche tra i giovani e i giovanissimi; istituire dei centri di incontro, di ricerca, di raccolta di manoscritti e libri, che fungano da punto di ritrovo di tutte le forze che lavorano per la conservazione della lingua ancestrale; esercitare pressioni sui legislatori che rappresentano il territorio affinché si adottino leggi-quadro per il sostegno della diversità culturale, incluse le lingue ancestrali; mobilitare per questo personaggi della cultura, dell’accademia, della legge che possano prestare la loro autorevole cooperazione verso il riconoscimento giuridico della propria lingua; redigere e sottoporre ad educatori e legislatori dei programmi di insegnamento, bibliograficamente e didatticamente ineccepibili; cercare di stabilire contatti con il mondo accademico, reperendo docenti aperti e sensibili alla questione della lingua e della cultura ancestrale; associare la lingua locale ad eventi culinari, feste comunali, celebrazioni, danze, in modo da farla percepire anche come lingua dello svago e dei divertimenti; tradurre statuti comunali e altri documenti nella lingua locale e renderli disponibili gratuitamente; convincere insegnanti ed educatori a non inveire contro dialettofoni e alloglotti ogniqualvolta sentono i loro scolari dire qualche parola “in dialetto” o in lingue extra-comunitarie, ma di cogliere invece l’occasione per dire come si dice quell’espressione in italiano; manualetti per incoraggiare i genitori e i nonni a parlare la lingua ancestrale in casa, con assistenza telefonica per coloro che avessero dubbi o domande.


Un gruppo di Walser della Valsesia

Tutte le attività umane trovano il loro corrispettivo nella lingua. Essa diventa il ricettacolo di ogni esperienza collettiva o individuale. È fondamentale per lo sviluppo intellettuale dei bimbi. È fondamentale per lo sviluppo della personalità di ogni individuo, per la diffusione della cultura e per la formazione dei concetti. La lingua è il pilastro centrale nella formazione dell’identità. La stessa società umana sarebbe inconcepibile senza la presenza di una o più lingue. Soprattutto è la lingua che consente la trasmissione dei tesori culturali, delle tradizioni, delle religioni nel passaggio da una generazione all’altra. La lingua è stata e continua ad essere uno strumento di dominio e di potere, ma è poi sempre per la lingua che si passa per arrivare all’emancipazione e alla libertà. La lingua è ciò che tiene unite certe nazioni e che ne divide altre. Lo studio delle lingue ci porta a capire le differenze, ma anche le affinità tra popoli e popoli e a valutare il peso delle culture sullo stato attuale dell’umanità.

Vi sono popoli che soddisfano tutte queste esigenze con una lingua sola, che è lingua ancestrale, veicolare, culturale, scientifica, patriottica allo stesso tempo. Ma è poi anche vero che Paesi come gli Stati Uniti, l’Australia e il Regno Unito hanno la più bassa percentuale di apprendimento delle lingue degli altri popoli, mentre in Canada, paese bilingue e multiculturale, un’altissima percentuale di giovani parla non solo una seconda, ma anche una terza lingua.

Negli Stati Uniti il lessico di frequenza degli adolescenti è uno dei più esigui al mondo, nonostante il fatto che la stragrande maggioranza di loro parli solo l’inglese. Ulteriore prova che il monolinguismo non produce buoni risultati.


Bretagna: una scuola per l’insegnamento della lingua bretone ai ragazzi

Vi sono dunque altre esigenze individuali e collettive che per essere soddisfatte richiedono la presenza e la conoscenza di altre lingue, oltre a quella nazionale e a quella internazionale. Si dice che il Faraone temesse Giuseppe perché era l’unico che parlasse tutte le 70 lingue del suo impero. Poteva fare concorrenza al Cardinale Giuseppe Mezzofanti (1774-1849), che è passato alla storia per averne parlate 50, capite 70 e in grado di tradurne 114. Certo è che Giuseppe il Nutritore, con tante lingue apprese, non scordò mai la sua lingua ancestrale, competenza che gli consentì di riconoscere i suoi fratelli e di salvare il suo popolo. Lì è proprio il caso di dirlo: lingua ancestrale, sopravvivenza, identità e libertà coincisero e furono una sola cosa.

Il dramma è che più dell’80% dell’umanità non ha più una lingua ancestrale e che dei 250 milioni di migranti che in qualsiasi momento sul pianeta cercano una nuova patria ben pochi la conserveranno e ancora di meno la trasmetteranno ai loro figli. Il dramma è che meno del 10% della popolazione mondiale parla più dell’80% delle 7.000 lingue planetarie e che quando questo 10%, composto soprattutto da piccoli popoli emarginati, sarà stato spazzato via da carestie, siccità, devastazione dei territori ancestrali, emancipazione dei giovani e migrazioni forzate, i tre quarti delle lingue ancestrali ancora in vita spariranno per sempre con loro.

La perdita e la sparizione delle lingue ancestrali comporta anche l’impoverimento di quelle nazionali. La ricchezza di una lingua è direttamente proporzionale ai valori spirituali e culturali del popolo che la parla. Ai miti, alle leggende, alle saghe, alle epiche dei popoli, la cultura occidentale odierna propone come alternativa le soap operas, i film di sesso e di violenza, i videogiochi e i reality shows. Non solo la lingua così utilizzata non fornisce più lo stimolo dell’idiomaticità e dell’espressività, ma il totale vacuum di valori dello spirito e della sana immaginazione finiscono per vanificare anche quel poco di creatività linguistica che ancora rimaneva.

All’inizio degli anni Sessanta i liceali europei utilizzavano una media di 6.000 parole in confronto alle 4.000 dei loro coetanei nordamericani. Oggi su ambo i lati dell’Atlantico siamo scesi a 2.800 parole. Le messaggerie telefoniche riducono ulteriormente il lessico utilizzato.


Allievi di un corso di lingua occitana

Di contro a questo scenario scoraggiante vi sono i lessici degli informatori dei dizionari della lingua Titzschu dei Walser e della lingua provenzale alpina che, collettivamente, hanno fornito per ciascuna lingua qualcosa come 30.000 parole, di cui più di 500 per la fauna, 650 per la flora, 1500 per attrezzi e lavori, 600 per cibi, pane e lavorazione del latte, 150 per il vestiario, 450 per case ed edifici rurali, 120 per liturgia e religione, 550 per usi e costumi, 400 per meteorologia, luce e buio, 350 per la conformazione geofisica, idrologica e forestale, e migliaia di parole per sentimenti, idee, impressioni, credenze, timori, superstizioni, fiabe, miti e leggende. Molti di questi termini sono unici e specifici del proprio territorio e non hanno un corrispondente nelle grandi lingue nazionali.

Detto in parole più semplici, per sopravvivere su un territorio, senza interventi esterni, un popolo doveva sapere diecine di migliaia di parole per definire le cose buone e utili distinguendole da quelle inutili o dannose. La vita ancestrale invariabilmente creava la lingua ancestrale, alla quale nessun fenomeno o presenza fisica poteva sfuggire.

Parlare bene e chiaro, chiamando ogni cosa con il suo nome, poteva significare la differenza tra sopravvivere o perire.

Quale coscienza hanno i legislatori di questo immenso patrimonio che a poco a poco si sta estinguendo?

Spesse volte ci viene fatto notare che in Italia, così come in vari altri Paesi intorno al mondo, sono state messe in atto delle leggi per la salvaguardia del patrimonio linguistico ancestrale. Ma non basta una legge o qualche ora d’insegnamento scolastico per salvare una lingua ancestrale. Occorre una strategia onnicomprensiva che includa il dialogo e la concertazione tra minoranze e autorità, leggi con ampie possibilità di manovra, un ambiente scolastico specializzato nell’accomodare scolari e studenti allofoni, incoraggiamento alle famiglie perché parlino la lingua ancestrale a casa e una forte volontà di adattarsi ai tempi nuovi salvaguardando i valori fondamentali.


Ragazzi siberiani

Chi tra di noi è attivo nel campo delle lingue ancestrali perché le insegna, o le documenta, o le difende, è cosciente di questa necessità. Non servono a nulla leggi e provvedimenti che sembrano voler salvare le piccole lingue, mentre in realtà agiscono solo da palliativo per mascherare il fatto che agli stati centrali non è gradito un popolo che parla molte lingue e non si identifica visceralmente con una sola di esse, quella del potere centrale. Per arrivare ad una politica linguistica aperta ed esplicita bisogna menzionare chiaramente i valori sui quali si intende fondare una società, il tipo di cultura che si intende promuovere, la libertà di scelte che si lascia ai genitori e ai cittadini, insomma, il volto scoperto di legislatori e popoli davanti alla libertà di parola.

Ci uniamo in questo alle voci degli amerindiani, dei walser, dei provenzali, dei sardi e dei piemontesi che il 24- 25 novembre 2012 hanno preso parte al Colloquio internazionale sulle lingue dei popoli, tenutosi a Biella a cura dell’Associazione Culturale Su Nuraghe. Siamo tutti d’accordo sulla loro bellezza e rarità, tutti capaci di parlarne almeno una, tutti intenti a documentarle e ad insegnarle, tutti preoccupati sulla loro possibile estinzione, tutti frustrati davanti all’indifferenza dei politici e dei governanti, nessuno rassegnato a buttare la spugna e ad arrendersi. Il problema è come trasferire questo fervore dai nostri cuori alle menti dei milioni di locutori che potrebbero salvare i rispettivi idiomi dal silenzio finale quando tanto è stato detto, grazie a loro, per accompagnare i popoli nel lungo viaggio dalla preistoria ad oggi.



Sergio Maria Gilardino, Linguista e docente di letteratura comparata all’Università di Montreal (Canada)

Antonella Marotta, Responsabile delle ricerche bibliografiche sul multilinguismo canadese e sulle culture amerindiane


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