Leggende e Tradizioni |
L’antico rituale del “Alà a Sounaìia” |
08 Gennaio 2013 | ||||||||||||||
Tradizioni ancestrali le cui origini si perdono nella notte dei tempi vengono tramandate con caratteristiche comuni in luoghi e popoli di tutta Europa
Alà a sounaìia” è un antico rituale che aveva luogo a Balme nella Val d’Ala, Piemonte, sino a pochi anni or sono, la sera del giovedì santo e che, in tempi più lontani, veniva denominato “la festa dìi Djudè”, la festa dei Giudei. Le modalità della manifestazione sono già state dettagliatamente descritte da Giorgio Inaudi nel volume “Le sounàiess a Balme la sera del giovedì santo” edito dalla Società Storica delle Valli di Lanzo nel 2001 e in altre pubblicazioni (Atlante delle feste del Piemonte, La Veillà du Val d’Aoste, reperibili on-line), nonché in un articolo di Alberto Castagneri in Barmes News n. 14: ragione per la quale non mi dilungherò nella loro descrizione. In queste pagine desidero cercare di mettere in luce la possibile origine di questa strana processione durante la quale gli uomini percorrevano i vicoli del paese provocando un grandissimo rumore suonando campanacci delle mucche, corni di caprone e conchiglie di mare; ancora più strano appare il fatto che la ricorrenza assumesse carattere religioso, rientrasse a pieno titolo nel cerimoniale della Settimana Santa ed avesse luogo non solamente all’aperto, ma anche all’interno della chiesa (questo perlomeno sino a metà degli anni Trenta del XX secolo, quando il parroco la proibì nell’ambito dell’edificio sacro). Il fatto che la cerimonia fosse più tardi seguita da un’altra processione che si protraeva sino a tarda notte, avente come “stazioni” le osterie del paese dove si beveva vino in abbondanza, avvicina la manifestazione al Carnevale più che alla Pasqua.
È però necessario ricordare che la Settimana Santa, ed in modo particolare i giorni di giovedì e venerdì, da tempi remoti vedono instaurarsi nel sud dell’Europa il regno di un terribile baccano che inizia durante l’Ufficio delle Tenebre, il giovedì, e non si conclude che il giorno di Pasqua. Le sonorità sono spesso assai violente. L’antropologo francese Arnold Van Gennep riporta i casi della Catalogna dove si percuotevano gli stalli ed il pavimento delle chiese con grandi colpi di bastone, della zona di Orléans dove i bambini, armati di mazzuoli, urtavano violentemente i banchi affinché i fedeli si alzassero in piedi, si sedessero o si inginocchiassero; nel Limousin si esponeva la statua di San Tommaso per somministrarle bordate di colpi di pietra e di bastone… Ancora oggi sono molteplici tali cerimonie: ricordiamo, per tutte, la famosa mascherata dei Giudei di San Fratello (Messina) dove uomini mascherati sfilano in processione agitando mazzi di catene a maglie schiacciate e, suonando trombe militari, si dividono, si uniscono, sguisciano fra i devoti, sgambettano e saltano all’impazzata. Questo baccano, sgradevole a udirsi, avviene nel periodo in cui, tradizionalmente, le campane delle chiese tacciono durante i giorni della permanenza di Cristo nel sepolcro. Gli strumenti più usati in sostituzione del suono delle campane e del campanello durante la Santa Messa, erano in legno: a Balme si ricordano le assicelle o tabelle della Settimana Santa (tanàbra) e il crepitacolo (tarabàcouless). Ma a questi si aggiungeva ogni sorta di strumento atto a provocare rumore: corni naturali o in terra cotta, trombette e fischietti, campanelli e sonagli… uno strumentario assai variegato che rimanda ad un antico rituale, di cui sopravvivono ancora oggi alcune manifestazioni, denominato in Francia “charivari”, in Italia “scampanata”, in Piemonte “ciabra”, nel patois di Balme “tchabrà”.
Era questa una sorta di chiassosa denuncia del matrimonio di vedovi o vedove, di sposi di età molto diversa fra loro, da parte delle Abbadie giovanili o Gioventù (originatesi nel Medioevo) che, in tal modo, intendevano regolare la vita della comunità secondo i dettami della morale cattolica e che i poveri sposi potevano evitare solamente pagando una sorta di gabella alla compagnia. Una dettagliata descrizione di uno charivari si trova nel «Roman de Fauvel» del 1316: il rituale ha luogo nella notte delle nozze tra Fauvel e Vana Gloria sotto le finestre del loro castello. Si tratta di un vero reportage poetico in cui si fa esplicito riferimento a “sonagli di vacca cuciti alle cosce e alle natiche” oltre a tanti altri oggetti di uso comune quali padelle, vasi di rame, e poi tamburi e cembali con i quali una banda di ribauds (ribaldi) disturba gli sposi provocando un chiasso infernale. Questo baccano, che costituisce la sostanza stessa dello charivari, testimonia sicuramente la riprovazione della società e sanziona una rottura delle unioni matrimoniali normali o ideali, frattura pericolosa di un ordine costituito, ma quello che a noi interessa è la data durante la quale ha luogo. Essa corrisponde al triduo liturgico dal giovedì al sabato precedente la Pasqua, quando le campane, cioè la “buona musica” sono colpite da una interdizione e devono restare mute. Il frastuono è una contro-musica provocata con gli “strumenti delle tenebre” evocatori delle potenze diaboliche e del disordine che accompagna la morte di Gesù. A Balme la “festa dìi Djudé” sembrerebbe rientrare a pieno titolo in questi cerimoniali di contro-musica che rimandano alla Passione di Cristo e alla condanna della colpa che per secoli la Chiesa addossò al popolo ebreo per la messa a morte del Figlio di Dio.
Esaminiamo ora con attenzione il Decreto di Polizia emanato dal sindaco di Balme, Castagneri, per ordine del questore della provincia di Torino in data 19 marzo 1887 per regolamentare la festa (Inaudi, 2001, pp. 14, 17): si tratta sicuramente del più antico documento scritto a fornire con precisione notizie relative alla cerimonia. Innanzitutto informa che durante la manifestazione avvenivano regolarmente disordini tali da suscitare l’intervento delle autorità di polizia. Proibisce ai giovani maggiori di tredici anni di portare sonaglie in chiesa ed alla processione del Giovedì Santo, e sancisce “di non far strepito in altro modo”. Dopo altre disposizioni relative allo svolgimento della processione, ordina: “…nell’uscire poi dopo la predica terranno le sonaglie in maniera bassa e passando dalla parte degli uomini e senza trattenersi sulla porta a fare insulti fileranno in piazza”. Il testo rivela che in quei tempi le sounàiess erano appannaggio dei giovani; probabilmente solamente in seguito, con il decremento demografico, vi parteciparono anche uomini adulti. Si comprende che il baccano non era provocato solamente dagli strumenti in dotazione, ma anche con grida e vociferazioni; inoltre l’ingiunzione di uscire dalla chiesa “passando dalla parte degli uomini” lascia intuire che dovevano esservi battute piuttosto pesanti nei confronti delle donne, comportamenti ingiuriosi che continuavano sulla porta della chiesa con lancio di insulti e di male parole verso i fedeli presenti. Il fatto che i giovani fossero protagonisti della festa dei Giudei e fosse questa l’occasione per inaugurare la màii dou bort (forse originariamente come rito di passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta?) sembrerebbe avvalorare la tesi del collegamento della manifestazione alle Abbadie giovanili ed a reminiscenze della tchabrà.
Il «Roman de Fauvel» narra che i partecipanti allo charivari “facevano l’uomo ubriaco”, “cantavano stupide canzoni”, “facevano un così grande schiamazzo che non se ne sentì mai uno simile”, “le loro bocche non erano chiuse per gridare e sbraitare forte”: possiamo intuire come la manifestazione balmese traesse da questo tipo di rituale le sue origini. Il Decreto di Polizia proibiva ancora “a chiunque di recarsi a sonagliare e altri strepiti nelle borgate non rispettivamente proprie”: la rivalità e gli scontri fra giovani di villaggi contigui era un’altra caratteristica tipica delle Abbadie giovanili. Addirittura l’Abbadia esigeva una somma di danaro (o l’equivalente in pranzi e regali) sia dalla sposa forestiera che veniva in paese, sia da quella che ne partiva per andare a maritarsi fuori paese: era la barrera, che traeva nome dalla barriera (un cordone, un nastro) innalzata lungo la strada per impedire il passaggio agli sposi, se non veniva pagata la quota richiesta. Era una vera e propria tassa proporzionata alla dote della sposa e chiaramente simboleggiava la resistenza che gli abitanti di un luogo opponevano al forestiero. Abbadie di giovani erano presenti in tutti i paesi delle Valli di Lanzo: a Balme la Djouventù comprendeva anche gli uomini adulti rimasti celibi, in essa si entrava generalmente dopo il servizio militare. Compito dell’associazione era quello tipico delle antiche Abbadie medievali: organizzare le feste in paese e praticare la tchabrà nei modi e nelle occasioni di cui si è detto sopra.
Una forma di tchabrà persiste ancora oggi in alcuni paesi delle Valli nei confronti dei fidanzati che dopo un lungo periodo di frequentazione si lasciano: allorché uno di essi convola a nozze, la casa dei novelli sposi e quella del partner abbandonato vengono unite fra loro con una lunga striscia di segatura o cenere: si tratta della pista o bernà (un tempo presente anche in Balme), termine che sembrerebbe derivare dal francese berner, deridere. Ma veniamo ora al più curioso degli strumenti con cui si provocava rumore quando si andava a sounaìia: le grandi conchiglie di mare, denominate lumàssess, presenti in quasi tutte le famiglie balmesi, tramandate di generazione in generazione. La loro presenza in un paese di alta montagna parrebbe strana: la tradizione vuole che arrivassero dalla Savoia; probabilmente le conchiglie, presenti un tempo nelle acque del Mediterraneo, ora pressoché estinte, seguivano le vie del sale che dalla Provenza giungevano sino alle Valli di Lanzo. La Charonia Lampas e la Charonia Tritonis usate nel rito delle Sounàiess, con il nome volgare di buccina, tritone, tromba marina sono presenti nel folklore di molte regioni: in Lunigiana venivano suonate nella Lumagada, un classico charivari fatto seguire al matrimonio di persone vedove o anziane; stessa cosa avveniva in Liguria, nella Val di Vara; ancora le conchiglie erano suonate in chiesa, durante i riti della Settimana Santa, nella zona di Pontremoli, a Genova, a Chieri.
Sappiamo dagli studiosi di tradizioni e folklore che esse ebbero, insieme ai corni, una parte importante nelle scampanate ed il loro uso riconduce questi cerimoniali alla più remota antichità, quando ancora non si avevano a disposizione oggetti e strumenti metallici. La conchiglia di mare e il corno, insieme al fischietto di osso, allo zufolo di canna ed al tamburo fanno parte, infatti, del bagaglio strumentale più antico dell’uomo. Non stupirà la commistione di sacro e profano presente nella festa dìi Djudè di Balme, se pensiamo che essa era tipica delle Abbadie giovanili medievali. Queste compagnie, sia nel nome del loro capo, chiamato Abate, e dei loro componenti, detti monaci, che nelle loro usanze, le quali erano una parodia dei riti della chiesa, furono una spiccata caricatura del clero e dei riti sacri, in armonia con la letteratura e l’arte, in cui spesso la religione e i religiosi erano messi in ridicolo. La Chiesa, in epoca medievale, per un lungo periodo, tollerò pienamente questo genere di comportamenti. Pensiamo al cosiddetto “mistero buffo” , una rappresentazione di temi sacri in chiave grottesco-satirica dove il giullare sbeffeggiava con modalità comiche le manovre furbesche di coloro che approfittando della religione e del sacro, pensavano agli affari propri. Oppure al Risus Paschalis, un fenomeno di religiosità popolare che segnava la fine della Quaresima e collegava il sacro con il riso. Era addirittura il sacerdote a scendere dal pulpito e a rallegrare i fedeli con scherzi, parole oscene e doppi sensi in una espressione liberatoria dopo il lungo periodo di penitenza. Manifestazioni per noi impensabili. Oggi che il rituale di “alà a sounaìia” pare definitivamente scomparso da Balme, spiace doverlo leggere solamente più come un relitto, oggetto di studio da parte dell’antropologo. Chissà che i pochi giovani balmesi rimasti non vogliano ricominciare la tradizione dei loro antenati. Occorrerebbe però lo stesso cuore e lo stesso orgoglio, guai a trasformarla in puro folklore: veramente, in quel caso, non diventerebbe altro che un carnevale fuori tempo e fuori luogo. |