Scienze

L’universo ologramma

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12 Aprile 2011

Siamo in un videogioco cosmico?



L’universo che vediamo esiste realmente per come ci appare? La scienza moderna avanza l’ipotesi che l’intero universo non sia altro che un ologramma a due dimensioni che simula una esistenza a tre dimensioni. Siamo dentro un videogioco cosmico, ignari della realtà in cui viviamo?


Poche cose probabilmente ci danno un senso di concretezza, di "realtà", quanto il mondo materiale in cui muoviamo i nostri passi. Tocchiamo una solida parete di roccia, un albero centenario e sappiamo, fin nelle nostre più intime fibre, che sono solide e reali.

Ma, al di fuori della familiarizzazione creata dalla nostra struttura cerebro-percettiva, cosa stiamo toccando veramente? Con che cosa ci relazioniamo? E cosa significa in realtà toccare qualcosa?

"La nostra percezione della tridimensionalità del mondo potrebbe essere una straordinaria illusione". Chi fa questa stupefacente affermazione è un serio ed affermato scienziato di fama internazionale, Jacob D. Bekenstein (Le Scienze n° 421, Settembre 2003, L'universo come Ologramma). Con una serie di ragionamenti che chiamano in causa la teoria dell'informazione, l'entropia e la natura dei buchi neri,  Bekenstein arriva alla conclusione che l'apparente solidità tridimensionale del nostro universo in realtà può essere una gigantesca rappresentazione olografica. Di conseguenza tutto ciò che ci circonda è in realtà piatto come la pellicola bidimensionale di un ologramma. Noi stessi con la nostra presenza e tutto il nostro mondo percettivo ed umano  non siamo che un fenomeno che avviene su questa superficie piana universale.

Vediamo in sintesi i passi salienti del ragionamento.

La domanda che dà il via al tutto è apparentemente innocente: quanta informazione può contenere il nostro universo? Possiamo pensare all'informazione in termini di quantità di bit. Ogni informazione può essere misurata in questo modo. Ma come misurare l'informazione possibile nell'universo?

Ogni atomo, ogni particella, ogni fotone reca quantità enormi di informazione. Per determinare per lo meno dei limiti concettuali alla quantità di informazione che è possibile stipare in una determinata area dell'universo ci viene in aiuto una considerazione.

Nel 1949 Shannon ha definito una fondamentale equivalenza tra l'unità di misura dell'informazione, il bit e la corrispondente quantità di entropia. In pratica egli ha affermato che la quantità di informazione e di entropia sono equivalenti. Ciò equivale a dire che la massima quantità di informazione contenibile in una determinata area di universo è uguale alla massima quantità di entropia contenibile nella stessa area. Quindi ci basta porre un limite alla quantità di entropia di una determinata area per avere di conseguenza la massima quantità d'informazione contenibile in essa. In questa operazione ci viene in aiuto la teoria dei buchi neri.

Quando la materia diviene altamente densa, in accordo con la teoria gravitazionale di Albert Einstein, lo spazio-tempo viene curvato al punto che anche la luce non può più sfuggire al campo di attrazione. Ciò che resta è dunque un buco nero dal quale nulla può sfuggire, né materia né energia. Il limite spaziale intorno al buco nero all'interno del quale niente può liberarsi dall'attrazione gravitazionale viene detto orizzonte degli eventi di un buco nero. Non si sa cosa ci sia all'interno del buco nero, ciò che si sa è che quando qualcosa cade in esso ne aumenta la quantità di massa. In apparenza i buchi neri violano il secondo principio della termodinamica che implica il fatto che in un sistema chiuso l'entropia non può diminuire: o resta costante o aumenta. Quando qualcosa cade in buco nero la massa e l'energia vanno ad incrementare la massa del buco nero ma l'entropia dell'oggetto viene persa. Per ovviare a questo problema Bekenstein ipotizzò che l'entropia di un buco nero sia proporzionale alla superficie del suo orizzonte degli eventi. Più precisamente l'entropia è uguale alla superficie del buco nero, misurata in aree di Planck diviso quattro. Visto che Hawking e Christodoulou avevano dimostrato che quando della massa cade in un buco nero il suo orizzonte non può in ogni caso diminuire, ma aumenta sempre ecco che il secondo principio della termodinamica viene salvato. Calcolata in questo modo l'entropia di un buco nero di un centimetro di diametro è uguale a 1066 bit, ovvero quanto quella di un cubo d'acqua di 10 miliardi di chilometri di lato.

Facciamo adesso un esercizio concettuale: immaginiamo una sfera di materia di superficie uguale ad A. Questa sfera viene fatta collassare in un buco nero. L'orizzonte degli eventi del buco nero deve necessariamente essere inferiore alla superficie A. Questo significa che l'entropia del buco nero deve essere inferiore ad A/4. Ma, visto che l'entropia non può diminuire, ciò significa che anche la sfera di partenza deve avere entropia inferiore ad A/4. In pratica vi è un limite alla quantità di entropia che può essere contenuta in una regione di spazio che non è proporzionale al suo volume ma alla sua superficie. Questo limite viene denominato vincolo olografico. Vista la corrispondenza tra informazione ed entropia il limite si estende alla massima quantità di informazione che è possibile contenere in una determinata porzione di spazio.

Ecco che siamo giunti ad una considerazione notevole: il limite di informazione possibile è legato alla superficie dell'oggetto che stiamo considerando e non al suo volume. Da qui sorge un parallelismo interessante con gli ologrammi.

Gli ologrammi sono delle fotografie effettuate con l'aiuto di una luce laser che imprimono su una superficie piana, la pellicola, tutte le informazioni per poter rappresentare un oggetto tridimensionale. Quando un raggio di luce colpisce una pellicola olografica ricrea l'oggetto con la sua apparenza tridimensionale. E' evidente che la quantità di informazioni che può essere contenuta in una pellicola olografica dipende dalla sua superficie e non dal volume dell'oggetto rappresentato. Da qui scaturisce lo stupefacente parallelismo con il vincolo olografico universale. Se la quantità di informazione contenibile in una determinata porzione di spazio è limitata dalla sua superficie, allora ciò che noi vediamo è possibile che sia una rappresentazione olografica di una superficie piana e non c'è modo di dimostrare i contrario.

Siamo fenomeni bidimensionali che vivono un'enorme illusione di solidità? E ancora: di che natura è e da dove promana quella "luce" che rappresenta la tridimensionalità dell'universo?

Una cosa è sicura, la percezione quotidiana del nostro mondo ci appare sempre meno certa e la nostra stessa natura sempre più un mistero.


Che cos’è un Ologramma

Si intende per ologramma una rappresentazione di un oggetto tridimensionale su una pellicola che, una volta illuminata da un raggio di luce, ricostruisce l'immagine tridimensionale dell'oggetto ripreso.

Per poter realizzare un ologramma occorre non solo registrare la forma dell'oggetto ma anche la distanza delle varie parti dell'oggetto dalla pellicola in modo che, durante la fase di riproduzione, si possa ricreare l'immagine dell'oggetto stesso. Per poter realizzare questo effetto è necessario avere un laser come sorgente di luce. Il laser ha la caratteristica di emettere un fascio di luce in cui tutte le singoli parti del fascio vibrano in sincrono e quindi mantengono una determinata coordinazione nella lunghezza d'onda.

Quando diverse parti del fascio di luce, che si muovono in sincrono, incontrano un oggetto tridimensionale ne vengono riflesse in momenti diversi, in questo modo recano oltre che informazioni sul colore e la forma anche informazioni sulla distanza.
Gli ologrammi sono fenomeni complessi per certi versi molto interessanti. Esistono teorie piuttosto accreditate che asseriscono che il nostro cervello funzioni in maniera olografica e che esperimenti sulla fisica delle particelle siano spiegabili con una natura olografica dell'universo.


 

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