Viaggi

Namibia e Cape Town, due volti dell’Africa australe

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22 Settembre 2011

Il waterhole di Etosha

Un viaggio che molti definiscono “il Viaggio della Vita”


Durante tutta la giornata, e ancora di più durante la notte, arrivano ordinatamente in branchi. Sono decine, più spesso centinaia, ed hanno come unico obiettivo la risorsa primaria della vita: l’acqua. Sono rinoceronti ed elefanti, zebre e giraffe, gnu e impala, oryx e springboks, volpi e sciacalli; rispondono alle leggi non scritte del rispetto e della gerarchia, della necessità e della paura. Il gruppo è la loro forza, la garanzia per raggiungere e godere del bene più prezioso. Anche lo scontroso rinoceronte – solitario per indole e carattere – non arriva mai da solo, si aggrega in alleanze provvisorie, minacciose verso l’esterno e fragili nello schieramento.

Guardare questa folla impressionante di animali è un privilegio esclusivo del parco di Etosha, nord Namibia, dove la grande pozza liquida si trova nell’Okaukuejo Rest Camp, giusto a pochi metri dai lodge. Gli ospiti possono assistere, 24 ore su 24, ad un rito che è, allo stesso tempo, lezione di etologia, strategia e psicologia. Ogni branco sembra giungere dal nulla, dal profondo di quell’immensa savana pronta a riaccoglierlo quando si allontana dopo l’abbeverata.

Tutto si svolge ordinatamente, i gruppi sono consapevoli della propria forza (o debolezza) come del proprio ruolo; c’è rispetto e timore, il più grande occupa lo spazio ed il più piccolo si sposta, ma non c’è aggressività gratuita, solo circospezione e prudenza dettata dall’istinto. Se il solito rinoceronte sgomita e impreca ci pensa l’elefante a fare giustizia; basta un movimento più rapido, un barrito di manifesta superiorità e lo scenario riprende la propria composta e brulicante dimensione. Persin troppo facile aggiungere che l’uomo ha tutto da imparare. Quando scende il buio d’inchiostro della notte australe, ed il cielo si propone come un immenso drappo di stelle, si accendono i riflettori.


Cape Town, il Waterfront

Così i visitatori, in un religioso silenzio rotto solo dai clic delle foto scattate, assistono ad una sorta di spettacolo teatrale e naturalistico unico al mondo. Perché la luce non disturba gli animali, ormai avvezzi alla curiosità dell’homo sapiens che ha imparato a non essere molesto. Anzi la luce accarezza una sorta di area di confine, una ‘terra di tutti’ dove il viaggiatore può assistere indisturbato ad uno spettacolo semplice, ancestrale, emozionante come pochissimi altri.

Se dobbiamo indicare – scegliere, selezionare – un’immagine che più di ogni altra renda l’idea del nostro viaggio in Africa australe il waterhole (buco d’acqua) del parco di Etosha è perfetto. Ombelico naturalistico sensazionale, quanto comodamente fruibile, questo luogo contende idealmente al cratere tanzaniano di Ngorongoro la leadership delle emozioni che ogni viaggiatore ricerca e pretende in un continente dove la parola ‘vita’ assume (da sempre) un significato assoluto, puro, semplice, fuori da ogni aspettativa e da ogni luogo comune.

Ma la Namibia, e più in generale l’Africa australe, offre al visitatore una dimensione che giustifica quel ‘viaggio della vita’ che molti inseguono scegliendo (o sognando) un itinerario in questi luoghi. Le ragioni sono diverse, ma tutte ideali per comporre un mosaico dove natura e storia, cultura e clima, sicurezza e qualità dei servizi, concorrono ad una felicità nell’approccio difficile da riscontrare altrove. Il primo vantaggio è ambientale: Namibia e Sudafrica sono nella parte meridionale del continente e quindi hanno ‘stagioni’ simili alle nostre anche se contrarie per calendario. L’estate australe corrisponde al nostro inverno, ed è un inverno solitamente mite (almeno in agosto), particolarmente secco in Namibia dove non piove mai, le notti sono fresche e le giornate costantemente soleggiate senza essere torride. Quindi, se si scelgono bene le date di partenza, niente caldo umido e soffocante o strade rese impraticabili da fango e pioggia. Poi, per restare agli aspetti pratici, il livello delle strutture propone location di assoluta eccellenza, sovente con uno standard qualitativo europeo o nordamericano.


Mareggiata sul pontile di Swakopmund

Il merito è facilmente riconducibile a dati storici unici e particolari, che ci parlano di un’Africa che è stata bianca senza la classica spirale del colonialismo. In Namibia, dopo la ‘parentesi tedesca’ (settant’anni di occupazione), il paese ha avuto un governo boero dal 1920 al 1990. Questa popolazione di origine olandese si ritiene africana, anzi afrikaans, e ‘nativa’ a tutti gli effetti. Presenti nell’area fin dal Seicento i boeri hanno sottomesso le popolazioni locali, ma lo hanno fatto con il ben preciso obiettivo di restare e di radicarsi nel territorio. Per loro i colonialisti erano gli inglesi (o i tedeschi), mentre l’amore verso questa terra si è costantemente manifestato attraverso lo sviluppo dell’economia, dell’agricoltura, dell’edilizia e delle infrastrutture. Niente veniva ‘rapinato’ per essere portato fuori, ma tutto doveva concorrere alla creazione di uno stato africano ‘bianco’, moderno e ricco.

La macchia storica dell’apartheid – con l’emarginazione violenta e radicale delle popolazioni nere – non può certo essere cancellata (o peggio perdonata) da questi presupposti, ma i risultati economici e sociali odierni sono radicalmente diversi rispetto alle piaghe dell’Africa equatoriale violentata dalle barbarie del post-colonialismo. Il Sudafrica di Mandela, nato all’insegna della riconciliazione, ha saputo proporre e presentare un modello di grande fascino, certo ancora ricco di contraddizioni stridenti, ma in grado di emozionare e persino commuovere nei suoi sforzi di integrazione e di crescita al di là dei vecchi steccati.


Otarie a Cape Cross

Sotto questo aspetto il successo della Coppa del Mondo di calcio è emblematico: l’Africa australe ha vinto un match non solo sportivo e turistico ma ha trasmesso all’estero l’immagine (e la sostanza) di un paese nuovo dal cuore antico, un paese dove le parole futuro e speranza hanno valenze politiche concrete e realistiche. La Namibia sembra vivere di riflesso questo fenomeno: anche qui la minoranza bianca, essenzialmente boera, ha ‘passato la mano’ alla maggioranza nera senza i traumi sconcertanti e le violenze di altri luoghi. Come in Sudafrica, ma forse più lentamente, si sta affacciando il fenomeno dei ‘black diamonds’ (la nuova upper class nera) e la transizione appare solo meno evidente per l’assenza di grandi aree urbane e per una densità abitativa particolarmente rarefatta: solo due milioni e mezzo di abitanti in 824mila chilometri quadrati (circa il triplo dell’Italia...).

Anche i dati classici (Pil, divario economico tra le classi sociali e altro…) vanno letti con cautela, essendo le popolazioni rurali dedite ad attività semplici e di autosussistenza, non facilmente misurabili. Comunque in entrambi i paesi ci si può muovere liberamente senza particolari problemi di sicurezza, con esclusione delle townships intorno alle grandi metropoli sudafricane. Altri punti a favore del nostro ‘viaggio della vita’ sono le bellezze naturalistiche (oceano, deserti, montagne, animali) e la già citata prospettiva storica, arricchita da una forte e numerosa presenza di realtà tribali integre e tutelate, che vanno dagli Himba ai Boscimani, dagli Zulu agli Xhosa.

Nel nostro itinerario abbiamo esplorato le principali eccellenze della Namibia – il parco di Etosha, la riserva dei grandi felini a Okonjima, il ‘caos geologico’ di Twyfelfontein, la cittadina oceanica di Swakopmund, il deserto del Namib – facendo precedere questa esperienza da un soggiorno a Cape Town, la più bella e dinamica metropoli del continente, nella veste particolarmente accattivante del post-mondiale. E, per comprendere che cosa abbia rappresentato la coppa, basta una semplice riflessione: questo era un paese dove, prima del 1994, non solo bianchi e neri non potevano giocare a calcio insieme, ma neppure ‘contro’….


I graffiti di Twyfelfontein

Dominata dalla Table Mountain (scalabile con la più spettacolare funivia urbana sinora concepita) la capitale culturale, gastronomica e naturalistica dell’Unione è fuori di ogni dubbio una delle più interessanti città al mondo. Incanta per la frizzante atmosfera cosmopolita (neri, indiani, coloured, inglesi, boeri e, più recentemente, europei di ogni nazione), la cucina irresistibile (africana, creativa, meticcia, internazionale, sempre innaffiata dalle eccellenti referenze del suo wine district), il fascino marinaio del Waterfront (area portuale ristrutturata all’insegna del loisir, ma ancora viva nei suoi approdi con navi, pescherecci e immensi docks), i luoghi storici legati a Mandela e alla lotta per l’uguaglianza (con l’isola di Robben Island, dove il leader restò imprigionato per 19 anni, e il museo del District Six: celebre quartiere multietnico, cancellato dall’arroganza dell’apartheid), l’incanto di un paesaggio naturale che mozza il fiato per varietà, colori, fauna e luce.

Nessuna suggestione panoramica manca all’appello: onde enormi che ruggiscono verso spiagge candide, tramonti rossi e dorati, montagne dalle vette aguzze coi costoni verdeggianti, riserve naturali a pochi chilometri dal centro (da non perdere Bolder Beach, con l’affollatissima colonia di african penguins), l’imponenza di Cape Point, con gli strapiombi di roccia che precipitano verso il blu cobalto dell’oceano.


Oggi la Provincia del Capo è anche un interessante esperimento politico, guidata com’è da Helen Zille: bianca ed energica sessantenne, giornalista liberale leader della Democratic Alliance, prima ‘non nera’ a vincere le elezioni dal 1994. Cape Town, la più affascinante e sicura metropoli africana, con quella sua posizione tra mare e montagna che la rende unica, riserva sorprese continue, come il suo clima: mutevole, periodicamente spazzato dal Cape Doctor (il vento della Table Mountain, un tempo ritenuto addirittura terapeutico), piovoso e soleggiato in una continua alternanza metereologica, stimolante perché sempre imprevedibile.

Vivere la Namibia con la formula ‘fly and drive’ assicura piena libertà di movimenti, orari personalizzati ed un approccio disteso e indipendente con l’Africa raramente riscontrabile in altre località.

Nel nostro itinerario abbiamo percorso 2700 chilometri in nove giorni, la maggior parte su sterrati e non più di 300 in strade asfaltate. La vettura a trazione integrale non è indispensabile, ma serve una buona disposizione alla guida e molta attenzione nel regolare la velocità del proprio mezzo. Bandita la velocità eccessiva (si rischia di uscire fuoristrada…) evitate anche di andare troppo piano: l’effetto ‘grattugia’ assicurato dalla ghiaia può essere insopportabile. Assolutamente necessario programmare l’arrivo alla base in orari adeguati (alle 18 scende una notte d’inchiostro) e fare benzina ad ogni distributore viaggiando sempre col pieno; mentre ‘bucare’ è uno scotto al quale si sfugge difficilmente. In caso di difficoltà tenete sempre conto che qui tutti (quando si incontrano…) si danno una mano e affrontano il quotidiano all’insegna della massima: «In Africa non sempre trovi quello che cerchi, ma è già molto se trovi qualcosa che vada bene».


Il Damarland

La fatica della guida sarà sempre ripagata con paesaggi formidabili, luci sorprendenti, bellissime foto e l’approdo serale in resort che non sono solo un rifugio, ma località dove accoglienza, panorama e impatto con la natura giustificano già di per sé la scelta della destinazione.

La riserva di Okonjima, con il suo Main Lodge permette di vedere (e di fotografare) con una certa frequenza il leopardo ed ha una struttura di primissimo livello, con guide e drivers espertissimi nel bush.

Del parco di Etosha abbiamo già detto; resta da aggiungere che l’Okaukuejo Resort – struttura statale – ha l’ineguagliabile pregio di ospitare il famoso waterhole che si raggiunge a piedi dal proprio lodge, un luogo magico d’incontro con tutta la fauna locale, un palcoscenico dove trascorrere beati ore infinite.

Dopo Etosha si attraversa il Damarland, aspro e desertico, per raggiungere le alture di Twyfelfontein. In questo caos geologico, dominato da alture rosse e irregolari che si incendiano nel tramonto, è possibile ammirare centinaia di pitture e graffiti opera degli artisti-sciamani che frequentarono la zona per migliaia di anni.

A questo punto del viaggio la rotta piega verso l’oceano dove, a Cape Cross, l’incontro con la più grande colonia di otarie dell’Africa australe permette di osservare oltre 90mila esemplari ammassati sulle rocce battute dall’Atlantico. A pochi chilometri si trova Swakopmund: surreale e fascinoso avamposto dove resiste il fascino della Germania guglielmina dei Kaiser, tra scritte in gotico, passerelle di legno protese verso il mare, edifici anseatici ed eleganza mitteleuropea. L’ultima tappa del viaggio porta al deserto del Namib (il più antico del pianeta), con le sue dune immense; un sorprendente ‘laboratorio naturale’ nel quale ogni forma di vita è stata costretta ad inventarsi particolari accorgimenti per sopravvivere.


Sulla strada ‘da e per’ fate sosta a Solitaire (un piccolo hotel particolarmente accogliente, una pompa di benzina e gli spettrali resti delle auto rese inservibili dalla lunga militanza africana) per assaggiare il più ghiotto apple pie di tutto il continente. Ve lo proporrà l’imponente e sornione Moose Mc Gregor, scozzese giramondo il cui mantra recita «da qualche parte dobbiamo pur andare…» e, schernendosi di fronte alle lodi per la sua golosa meraviglia, aggiunge «il mondo è pieno di gente che fa cose buone». Osservandolo al lavoro, mentre i nativi approvvigionano i viaggiatori di benzina e affrontano sorridenti ogni emergenza, si ha davvero la sensazione di cogliere un pezzo dell’anima che distingue questo angolo di Africa dagli altri. Nella parte australe del continente si sono dati appuntamento uomini di ogni dove – boeri e tedeschi, inglesi e nomadi irrequieti, scrittori e avventurieri – per diventare tutti africani. Terminata l’era delle guerre, sconfitta la tenebrosa parentesi della segregazione, oggi concorrono a creare delle ‘rainbow nations’ che si aggrappano ad un futuro tutt'altro che semplice, una sorta di favola politica, umana e sociale che merita un vero viaggio di conoscenza. Fatto amando luoghi bellissimi e credendo, coi suoi vecchi e nuovi nativi, ai realistici miracoli dell’arcobaleno.


Foto Guido Barosio



Guido Barosio, giornalista, fotografo e scrittore, è direttore della rivista Torino Magazine e dell’Agenzia di Stampa nazionale LaPresse.



 

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