Megalitismo |
I megaliti di Nardodipace e la Città della Porta |
12 Aprile 2011 | ||||||||||||||
Il ritrovamento di imponenti siti megalitici in Calabria getta una nuova luce sulla controversa esistenza del mitico popolo dei Pelasgi
Nel quadro storico dell’Europa preromana sta acquisendo un ruolo sempre più di rilievo il popolo dei Pelasgi, fino a pochi anni fa relegato al mito. Questo antichissimo popolo che alcuni studiosi collocano originariamente nell’Asia Minore e più precisamente nel bacino del Mar Nero, mente altri autorevoli ricercatori si spingono ad identificarne le radici nell’area atlantica, è spesso associato alla talassocrazia dei famosi Popoli del Mare tra i quali le gesta degli Shardana sono senz’altro le più note a noi abitanti dell’area mediterranea. I Pelasgi rivestono un ruolo storico molto controverso, dibattuto tra chi addirittura ne nega l’esistenza e chi, erroneamente, li assimila cronologicamente agli inizi del periodo romano. Eppure ci hanno lasciato alcune inconfutabili tracce della loro presenza sul territorio europeo, basti pensare alle numerosissime mura megalitiche e città ciclopiche che hanno disseminato nelle loro ripetute migrazioni lungo le direttrici che approdano sulle coste del Mediterraneo, l’Europa centrale e le strade dell’Oriente. La testimonianza più evidente del loro passaggio in un territorio è infatti l’edificazione delle città ciclopiche, così denominate per la loro cinta muraria realizzata con giganteschi blocchi di pietra poligonali assemblati senza malta. Questa loro specifica abilità costruttiva li mette in una precisa relazione storico-culturale con l’antichissima civiltà del Popolo dei Megaliti, gli edificatori di Stonehenge, di Malta e dei grandi insediamenti megalitici presenti in tutta Europa e nell’intero pianeta.
La storia dei Pelasgi è talmente antica che in effetti affonda le radici nella sfera delle leggende e dei miti. In qualche modo possono essere considerati i continuatori della grande Civiltà del Mar Nero che sorse su questa terra fertilissima diverse migliaia di anni prima della nostra era a seguito di eventi straordinari descritti molto dettagliatamente nel mito di Fetonte, un essere sceso dal cielo che sollevò le sorti della conoscenza dell’umanità dell’epoca e di cui si trovano tracce mitologiche in molte culture del pianeta. Il mito di Fetonte racconta della straordinaria città megalitica di Rama edificata sul luogo della discesa del carro celeste su cui viaggiava, vale a dire la zona oggi chiamata Valle di Susa, in Piemonte. Secondo il mito questa città fu distrutta e ricostruita tre volte nell’arco di diversi millenni e la seconda fu opera appunto dei Pelasgi al termine della migrazione dalle loro terre di origine verso altre già note causata da una catastrofe ambientale avvenuta verso il 6000 a.C., confermata peraltro da studi condotti dai riceratori Ryan e Pitman. Alcune delle direttrici migratorie interessarono il territorio italico nell’Adriatico Settentrionale, e da qui intrapresero un avanzamento verso l’interno della penisola, e sulle coste del Tirreno da dove si spinsero verso l’entroterra dell’Italia Centrale, stanziandosi prevalentemente nel Lazio. Fu in quest’aerea che diedero vita alle “città cosmiche”, cosiddette per la peculiarità di essere fra loro distribuite sul territorio secondo precisi canoni cosmologici che riproducono in modo sorprendentemente esatto alcune costellazioni; città conosciute nel mondo per la presenza delle possenti mura ciclopiche.
Secondo alcuni miti laziali i Pelasgi condotti dal loro re Giano parteciparono attivamente anche all’edificazione del primo nucleo della Roma arcaica. I Pelasgi si dice fossero dediti all’arte metallurgica e per procurarsi le materie prime necessarie si spingevano nel territorio alla loro ricerca. Probabilmente fu questo il motivo per cui, all’incirca dal V al III millennio a.C., si spinsero verso il sud della penisola italica giungendo nelle Serre Joniche calabresi ricche di rame e alluminio, nonché di argento. Esistono elementi che possono suffragare questa ipotesi migratoria? Nell’agosto 2002 i quotidiani nazionali e locali pubblicarono un articolo che fece scalpore attirando l’attenzione del mondo accademico archeologico e degli studiosi amatoriali: fu data notizia del ritrovamento in Calabria nelle Serre Joniche, precisamente a Nardodipace, in provincia di Vibo Valenzia, di un sito megalitico straordinario, accostato alla blasonata Stonehenge, portato in luce da un colossale incendio che lo liberò dalla selvaggia vegetazione che lo rivestiva totalmente. La notizia fece velocemente il giro del mondo: la scoperta aveva dell’incredibile poiché il sito, per via delle dimensioni eccezionali, per la stupefacente conservazione e per la sua apparente natura antropica era stato in fretta e furia accostato alle famose costruzioni megalitiche del Nord Europa. A dire il vero la diatriba sulla fattura degli imponenti ritrovamenti ebbe inizio addirittura tra gli stessi enti scientifici ufficiali; infatti la scoperta fu prontamente segnalata all’Università della Calabria, facoltà di Geologia, nella persona del Prof. Guerricchio che a seguito di due sopralluoghi effettuati personalmente presso i siti divenne un convinto assertore della natura antropica dei complessi megalitici a differenza della Soprintendenza Archeologica che, invitata a studiare le pietre, attribuì la conformazione di quest’ultime ad una strana coincidenza morfologica approntata dalla natura, adducendo motivazioni prive di fondamento con il solo evidente scopo di minimizzare e ridicolizzare l’entità del ritrovamento. Anche un sopralluogo effettuato dai ricercatori della Commissione per lo Studio e la Catalogazione del Megalitismo dell’Ecospirituality Foundation ha rivelato la più che probabile presenza dell’uomo nella conformazione di questi due enormi complessi che misurano circa 8 e 6 metri in altezza con una base di decine di metri costituita da pietre gigantesche a forma poligonale pesanti fino a 200 tonnellate che, come si riscontra in tutti gli insediamenti megalitici pelasgici, sono assemblate con una precisione stupefacente tale da non permettere di infilare tra i loro interstizi neanche un foglio di carta.
Dagli elementi riscontrati in questo sopralluogo si può anche ipotizzare che le strutture megalitiche attualmente visibili siano il prodotto di una erezione ex-novo e di un parziale modellamento eseguito dall’uomo di strutture naturali preesistenti, come è stato riscontrato nel circolo megalitico di Poggio Rota, in Toscana o come è stato appurato sia avvenuto per il fenomeno delle grandi piramidi europee. Un altro elemento che può rivelarsi importante per cercare di capire la natura di queste conformazioni è costituito dal fatto che entrambi i complessi megalitici sono ubicati esattamente sulla sommità di collinette apparentemente artificiali, per via dei numerosi massi squadrati disordinatamente accatastati che sembrano costituirle e dei quali nel terreno circostante non vi è più alcuna traccia. Stranamente queste strutture ricordano da vicino i tumulus della cultura celtica, ma è davvero ipotizzabile stabilire una relazione culturale fra quest’ultima e i misteriosi edificatori dei megaliti di Nardodipace? Vedremo che questa ipotesi non è poi così azzardata. Sulla scorta della pressoché certa constatazione che i popoli megalitici edificavano i loro insediamenti secondo precise cognizioni archeoastronomiche, i ricercatori locali che seguivano le vicende relative alle attribuzioni sulla natura delle pietre hanno commissionato all’Istituto Brera di Milano dei sopralluoghi a carattere archeoastronomico per verificare se anche qui fossero presenti o meno significativi elementi di questo genere che avrebbero messo a tacere definitivamente la diatriba sulla natura antropica dei complessi megalitici. Le conclusioni emerse da queste indagini sono sorprendenti perché confermano l’esistenza di linee astronomicamente significative da un punto di vista stellare, lunare e solare, soprattutto in uno dei due siti, quello denominato “località Sambuco o Pietre incastellate” (comunemente chiamato sito A). L’osservazione della sequenza delle levate eliache (il fenomeno del sorgere di una stella esattamente all'alba) in un determinato luogo permetteva agevolmente la delimitazione di una serie di date ben precise durante l’anno solare tropico, date che servivano per calendarizzare le pianificazioni agricole, la navigazione e l’attività cultuale e sociale. E’ stato sorprendente constatare che la sottile fessura determinata dall’accostamento delle due pietre gigantesche a forma di menhir erette nel sito A costituivano una sorta di mirino lunare attraverso il quale, nel Neolitico, si poteva osservare la levata del nostro satellite in un giorno specifico del suo ciclo orbitale, il lunistizio estremo inferiore, che ricorre precisamente ogni 18,61 anni.
Inoltre lungo la stessa direttrice poteva essere vista sorgere anche la costellazione della Croce del Sud, attualmente non più visibile alle nostre latitudini, molto cara per motivi simbolici alle popolazioni megalitiche dei Popoli del Mare e ricorrente negli orientamenti dei nuraghi sardi e delle acropoli laziali. I due siti megalitici inoltre erano allineati fra di loro e traguardando da uno verso l’altro si potevano osservare i movimenti di importanti stelle come Vega della costellazione della Lyra e Betelgeuse di Orione. Ma cosa rappresentava per i Pelasgi questa estesa area che comprendeva due ravvicinati complessi megalitici? Ad una attenta osservazione del sito in località Ladi (comunemente chiamato B) si possono individuare strutture che ricordano una gigantesca porta trilitica con possenti pareti verticali molto ben definite che sorreggevano un architrave, ora situata a terra nelle immediate vicinanze con ancora ben visibili gli alloggiamenti scanalati necessari al suo ancoraggio alle pareti. E’ ancora visibile una traccia di scalinata che sale alla porta. Ma sono assai sorprendenti le testimonianze rilasciate da un appassionato ricercatore locale che, sulla scia dell’entusiasmo e delle interpretazioni che le recenti scoperte avevano prodotto, ha cominciato a perlustrare a tappeto la zona per verificare se altre conformazioni rocciose che aveva individuato nel tempo potessero essere ricondotte a loro volta a veri e propri siti megalitici. Fu così che si individuarono resti di cerchi di pietre, mura, altari megalitici, tutti elementi che erano stranamente visibili traguardando da una postazione all’altra. Questa identificazione fa pensare che i due famosi complessi A e B facessero parte di una vasto insediamento posto nell’altopiano di Ciano sul Monte Palella battuto da popolazioni pelasgiche a partire dal IV millennio a.C. A suffragare questa ipotesi vi sono le testimonianze di alcuni studiosi e operai scalpellini che affermano di ricordare che diversi decenni orsono, adiacente al sito Ladi (B) vi erano una camera megalitica a forma quadrata delle dimensioni di 4 metri circa e una scalinata che culminava in una piattaforma su cui era posta una struttura megalitica monoblocco a forma di uovo. Questi elementi architettonici se fossero pervenuti a noi avrebbero fugato ogni dubbio sulla natura del sito, ma furono completamente distrutti negli anni ’70, a detta di chi partecipò direttamente al loro smantellamento, per recuperare materiale da impiegare in lavori stradali. A completare l’opera di sventramento dello straordinario complesso megalitico si è aggiunto un devastante terremoto che ha fatto crollare i triliti più alti che componevano la porta di accesso al villaggio. La storia dei ritrovamenti megalitici di Nardodipace è strana e curiosa, poiché la loro scoperta ha costituito il coronamento, la chiave di volta di un lunghissimo ed appassionante studio condotto da decenni dall’antropologo Domenico Raso sulle popolazioni pelasgiche presenti nelle Serre Joniche.
Le sue ricerche erano basate sulla decifrazione di misteriose segnature, che non avevano riscontri conosciuti nel mondo archeologico ed epigrafico, incise su reperti di terracotta ritrovate a Girifalco, in provincia di Catanzaro, alla fine degli anni ’60 e appartenenti alla collezione Tolone, un avvocato appassionato di archeologia che ne fece la scoperta. I reperti in questione sono davvero straordinari per la loro unicità (sono state riscontrate forti similitudini solo con uno dei controversi reperti di Glozel, in Francia e con quelli della collezione Crespi provenienti dall’Ecuador!) e per l’importanza delle incisioni che recano; 12 tavolette d’argilla con misteriosi segni identificati come un calendario, statuette, un astrolabio, una scultura raffigurante un personaggio seduto che sembra un re, un oggetto di argilla a forma conica recante una serie di incisioni, steli, dischi solari e numerosi altri oggetti. Di fronte alla vista di queste incisioni si rimane stupiti per la similitudine che mostrano con i caratteri dell’alfabeto runico. Questa curiosa somiglianza apre scenari inquietanti, culturalmente parlando, perché confermerebbe il sospetto, avanzato da diversi studiosi, dell’ origine celtica dei Pelasgi. Questi segni grafici sono stati interpretati come una prescittura pelasgica e i disegni estrapolabili dal modellato delle statuette sono stati individuati come dei “falsi figurativi”, vere e proprie mappe e indicazioni topografiche eseguite per contenere e tramandare informazioni ben precise sulle vicende ma anche sui costumi e tradizioni di quel popolo in fuga. Dopo molti anni di studio questi reperti, attraverso le incisioni, ci hanno restituito una storia ben precisa, la migrazione del Popolo del Mare pelasgico che a seguito di un vero e proprio tsunami che investì intorno al V millennio a.C. il bacino del Mar Nero e dell’Africa Nord-Orientale fu costretto a intraprendere un viaggio verso le terre sicure del Mediterraneo occidentale. L’interpretazione della prescrittura e i falsi figurativi descrivono, secondo l’autorevole artefice della loro decifrazione, i connotati di un popolo evoluto, possessore di una elevata conoscenza tecnologica scientifica e astronomica, in grado di rendere possibili imprese titaniche come la costruzione degli insediamenti megalitici; ma era anche un popolo che riconosceva il carattere sacro del rapporto con la Natura, venerata come Madre Terra, che era dedito ai culti riferiti proprio agli elementi determinanti i cicli naturali, come il Sole, la Luna e le stelle. Era anche una società matriarcale, quella pelasgica che frequentava questi luoghi, e ciò si deduce dal simbolo sacro identificativo del culto lunare, un triangolo con il vertice ribassato, che appartenne da sempre a tutti i Popoli del Mare e che ritroviamo nelle incisioni dei reperti Tolone dove, all’interno delle mappe in falso figurativo decifrate, sembra voler indicare un luogo preciso, poi identificato con la Piana di Cianu appena sopra Nardodipace.
La raccolta di queste informazioni cifrate, avvenuta quindi molto tempo prima della scoperta dei megaliti di Nardodipace, descrivevano con estrema ricchezza di dettagli l’edificazione di quattro città dislocate nel territorio delle Serre Joniche, due costiere e due nell’entroterra montano. Uno di questi luoghi era chiamato la città del Tempio del Sole, un altro la Città della Porta., identificata da alcuni particolari segni grafici e posta in prossimità della Piana di Cianu, stesso luogo in cui sono stati rinvenuti i megaliti. Questo sito era indicato come il luogo di culto principale di quella popolazione, un vero e proprio Tempio della Natura con attributi simbolici legati al concetto di porta intesa come soglia, rinascita, accesso verso nuovi percorsi, ma anche con funzione sepolcrale. Secondo il racconto contenuto nella prescrittura infatti i Pelasgi migrarono verso queste terre portandosi dietro le spoglie dei loro Re e dei loro antenati che, stando a quanto dice la leggenda descritta, furono sepolti in una grotta (che per la cronaca sembra sia stata effettivamente individuata ma non ancora esplorata a fondo). I ritrovamenti megalitici dei siti A e B richiamarono quindi, anni dopo l’avvenuta decifrazione e mappatura dell’insediamento pelasgico, l’attenzione del prof. Raso che era ancora alla ricerca di riscontri concreti di questa mitica Città della Porta di cui aveva intuito l’esistenza. Fu grande e collettivo lo stupore che sopravvenne quando furono individuati su alcune pietre che formano il sito B gli stessi segni incisi che erano stati ipotizzati dallo studioso. Il cerchio si era chiuso e sulla scia di questi incoraggianti eventi un altro insediamento megalitico fu rinvenuto poco distante da questo e anche qui furono rilevati senza ombra di dubbio le incisioni presenti sui reperti della collezione Tolone. Questi ultimi avvenimenti descritti volgono, per pura deduzione, decisamente a favore dell’ipotesi della natura antropica dei siti megalitici. La ricerca accademica ovviamente non riconosce questo percorso, o quantomeno nutre forti dubbi in proposito, perché implicherebbe la necessità di riscrivere la storia del Neolitico italiano e non solo. Ma è interessante constatare come queste imponenti strutture costituiscano un’inesauribile fonte di interrogativi oltre che di genuino stupore: da dove provenivano la conoscenza e l’abilità di cui era in possesso il popolo pelasgico? Non soltanto le lontane terre del Grande Nord furono calpestate da popolazioni neolitiche sorprendentemente evolute per quel periodo storico; non fu soltanto in quei luoghi magici che furono realizzate imprese che ancora oggi lasciano a bocca aperta. Lo spirito puro del libero ricercatore coglie anche nello scenario che si è venuto inaspettatamente a delineare in questa sperduta e dimenticata area del sud della penisola l’atmosfera di pura magia e di profonda sacralità che già in tempi remoti veniva vissuta e vivificata da quel misterioso popolo megalitico. |